sabato 31 maggio 2014

Rohani: “Segnali tangibili di crescita economica”


 

 

 

A cura di Ali Reza Jalali

 

L’economia iraniana segna alcuni segnali di miglioramento negli ultimi mesi, con l’avveno del governo Rohani, rispetto agli ultimi periodi del governo precedente, diretto da Mahmoud Ahmadinejad. Gli analisti economici del paese mediorientale prevedono infatti per l’anno 1393 del calendario iraniano (marzo 2014-marzo 2015) una crescita del PIL superiore del 3%, a fronte di un anno 1392 conclusosi sostanzialmente con una stasi, preceduto però da un’annata che aveva segnato un pesante -5%, record negativo degli ultimi 20 anni.

Anche l’inflazione segna un miglioramento; infatti, in base ai dati ufficiali si è passati da un pesante 40% su base annua all’attuale situazione: 30%.

Le sanzioni internazionali hanno avuto un ruolo fondamentale nella crisi economica dell’Iran, crisi appesantita dalla situazione istituzionale iraniana, segnata da una forte conflittualità interna che aveva di fatto bloccato il paese per oltre un anno, quando il governo di Ahmadinejad aveva completamente rotto con gli altri poteri dello stato, soprattutto col parlamento, nel suo ultimo anno di vita. Infatti, in base alla forma di governo iraniana, una collaborazione tra esecutivo e parlamento è necessaria per portare avanti un programma in modo positivo. Con il governo Rohani si sono ristabiliti e riequilibrati i legami tra governo e potere legislativo. Non a caso l’attuale esecutivo è il frutto di larghe intese, che ha portato alla formazione di un governo di grande coalizione tra varie anime della politica iraniana.

Tutto ciò sembra aver avuto un impatto positivo sull’economia iraniana, in forte difficoltà ultimamente. Nel periodo 2012-2013 l’Iran è stato l’unico paese mediorientale ad avere una forte recessione. In base al programma di sviluppo quinquennale della Repubblica Islamica, il governo deve impegnarsi per promuovere una crescita annua del PIL intorno all’8%. Ciò pero, negli ultimi 5 anni non è mai avvenuto e il record rimane, sempre secondo i dati forniti da quello che possiamo definire l’ISTAT dell’Iran, il +6% registrato nel periodo 2010-11, prima che ci fosse l’appesantimento delle sanzioni internazionali.

Il governo iraniano quindi cerca di promuovere una politica di crescita, giocando anche sul fattore psicologico. Non a caso recentemente, come riferisce l’agenzia ADN-Kronos, riprendendo una notizia lanciata dalle agenzie iraniane, il presidente Rohani ha affermato che ci sono “segnali tangibili” che l'Iran sta “uscendo” dalla recessione economica; in un incontro a Tehran con i manager delle banche pubbliche e private della Repubblica Islamica, Rohani ha aggiunto che ci sono segnali “molto promettenti” . “E' evidente - ha aggiunto - che il paese sta vivendo una fase di crescita economica e che gradualmente sta uscendo dalla recessione”.

giovedì 29 maggio 2014

La partecipazione popolare alle elezioni in Medio Oriente: alcune statistiche

Il premier turco Erdogan mentre vota
 

 

A cura di Ali Reza Jalali

 

I paesi della regione mediorientale hanno dei tratti in comune e alcuni invece di forte differenza. A grandi linee, a parte Israele, sono paesi a maggioranza musulmana, multietnici o multiconfessionali. A livello istituzionale abbiamo monarchie e repubbliche, con forme di governo parlamentari, semipresidenziali o presidenziali, pur con alcune differenziazioni rispetto ai modelli occidentali. In base alla forma di governo cambia il rapporto del popolo con le istituzioni: in pratica, ad una forma di governo parlamentare corrisponde una maggiore attenzione del corpo elettorale per le elezioni politiche, volte a rinnovare il parlamento. In un sistema presidenziale invece, le elezioni principali potrebbero essere quelle per la scelta del presidente, offuscando, se così si può dire, l’impatto generale e perché no, anche mediatico, delle elezioni politiche. Quindi bisogna saper leggere i dati riguardo alla partecipazione elettorale nei vari contesti con attenzione e spirito critico. I numeri vanno interpretati, ma anche presi in modo secco, esprimono dei significati. Uno degli standard, non l’unico ovviamente, col quale si può valutare l’effettiva democraticità di un sistema di governo è il grado di partecipazione popolare ad eventuali elezioni. Con ciò si può comprendere anche il grado di maturazione politica di un paese, se non la credibilità del modello istituzionale stesso. Di seguito alcuni numeri sulla partecipazione elettorale in Medio Oriente. Nota bene: la ricerca è parziale e riguarda solo alcuni paesi, prendendo in considerazione le elezioni di rilevanza nazionale, escludendo quindi consultazioni amministrative.

 
Una donna egiziana vota per le presidenziali del 2014. La democrazia è un modello di importazione nel mondo islamico, ma ormai rappresenta un sistema che, tra alti e bassi, sta cercando di consolidarsi nella regione.


 

Israele: elezioni politiche dal 1949 al 2012, complessivamente 20 tornate, media partecipazione 79 percento circa. Trend. Progressivo calo, prima degli anni 2000 la partecipazione era costantemente intorno all’80 percento, dopo, negli ultimi quindici anni, costantemente sotto il 70 percento. Max. 86 percento nel 1949 (prima tornata), min. 62 percento nel 2001.

Egitto: elezioni politiche dal 1976 al 2012, complessivamente 10 tornate (di due tornate non ci sono i dati), media partecipazione 42 percento circa. Trend. Altalenante, anche se il risultato migliore si è ottenuto nel 2012 (62 percento) e quelli peggiori negli anni immediatamente precedenti (2010, 2005 – 27 percento, 28 percento). Elezioni presidenziali: ultime tre tornate (2005, 2012, 2014): 37 percento.

Turchia: elezioni politiche dal 1950 al 2011, complessivamente 13 tornate, media partecipazione 81 percento. Trend. La partecipazione è stabile, a parte tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 che era scesa intorno al 60 percento. Max. 93 percento del 1987. Min. 64 percento nel 1969.



Una donna iraniana vota. Il suffragio universale esiste in Iran dagli anni '60.

 

Siria: elezioni politiche dal ’94 al 2012, complessivamente 5 tornate, media partecipazione 62 percento. Trend. In generale stabile, tra il 50 e il 60 percento, a parte nel ’98, con una affluenza dell’82 percento. Elezioni presidenziali: primavera 2014.

Iran: elezioni politiche dal 1980 al 2012, complessivamente 9 tornate, media partecipazione 59 percento. Trend. Stabile tra il 50 e il 60 percento, a parte le elezioni del 1996 e 2000 con una partecipazione intorno al 70 percento. Elezioni presidenziali: 11 tornate dal 1980 al 2013. Media partecipanti 67 percento. Trend. Altalenante, soprattutto con un forte calo tra la fine degli anni ’80 e la prima metà degli anni ‘90. Max 83 percento nel 2009. Min. 50 percento nel 1993.  

 

Una parte consistente delle statistiche sono riprese dal sito http://www.idea.int/. Alcuni dati possono cambiare da fonte a fonte, ma complessivamente i numeri sono approssimabili a quelli da noi presentati.

lunedì 26 maggio 2014

L’Europa (forse) cambia, l’Italia no



Ali Reza Jalali

Volendo commentare le recenti elezioni europee, dobbiamo in primo luogo capire la portate effettiva del voto, sottolineando appunto la natura comunitaria di questa tornata, con un significato che può essere diverso da normali elezioni nazionali. In pratica lo scorso 25 maggio centinaia di milioni di cittadini europei sono stati chiamati a rinnovare il parlamento europeo, ovvero quell’organo dell’Unione Europea predisposto ad un ruolo di collaborazione con altre istituzioni comunitarie, non elette democraticamente, per quanto riguarda il potere legislativo. Quindi il parlamento europeo non svolge un’attività completamente omologabile a quelli che sono i parlamenti nazionali, detentori effettivi del potere di emanare norme, ma solo approssimabile; già qui possiamo comprendere che l’incidenza del voto dei cittadini sull’operato dell’Unione è meno efficacie che non per le elezioni nazionali. Se poi aggiungiamo il fatto che ogni nazione elegge un numero limitato di rappresentanti, in Italia in tutto si eleggono circa 70 eurodeputati sul oltre 700, in pratica, chi vince le elezioni europee nel panorama nostrano porta in Europa una trentina di rappresentanti, che sono nulla in confronto al numero totale dei deputati, comprendiamo che il potere di impatto democratico delle nazioni del vecchio continente è limitato sull’Unione Europea. Inoltre una regola non scritta impone che vi sia una alternanza per ciò che concerne la dirigenza effettiva dell’UE, ovvero per quello che riguarda la Commissione europea, guidata una volta da un esponente del PPE (centrodestra), una volta da un esponente del PSE (centrosinistra), e ciò a prescindere dall’esito delle elezioni, normalmente appannaggio del PPE, forza di maggioranza relativa all’interno del parlamento europeo. Insomma, l’incidenza del voto del popolo è molto bassa in Europa, e per questo alcuni studiosi parlano di un vero e proprio “deficit democratico” all’interno delle istituzioni comunitarie.

Detto ciò, secondo me, è molto più interessante vedere il dato elettorale nazione per nazione, che non quello europeo nel complesso che, per la cronaca, vede per l’ennesima volta un astensionismo di massa, più della metà degli aventi diritto non è andata a votare, confermando la freddezza degli europei nei confronti delle istituzioni comunitarie, oltre alla scontata vittoria del PPE, che ottiene, anche qui per l’ennesima volta, la maggioranza relativa dei seggi, poco più di 200 su oltre 700.

I dati nazionali quindi: nel complesso vediamo la forte crescita dei partiti e liste elettorali critici nei confronti dell’Unione Europea, con una generale forte affermazione delle forze populiste, soprattutto in paesi chiave come Gran Bretagna e Francia, dove gli euroscettici vincono le elezioni affermandosi come forze di maggioranza relativa. Su tutti emerge la figura della Le Pen, che infligge una sonora batosta ai socialisti transalpini, al minimo storico. In Grecia invece trionfa la lista socialdemocratica di Tsipras, impropriamente definita di “sinistra radicale”. In realtà Tsipras è un leader che rappresenta la “nuova” sinistra europea, una forza che si colloca non di certo in antitesi con gli interessi dell’Unione Europea. Certamente le elite comunitarie preferirebbero sempre l’affermazione o dei classici conservatori liberali di centrodestra, o degli altrettanto classici socialisti alla PASOK, ,ma ovviamente la vittoria di Tsipras non è così drammatica, come lo è invece la vittoria della Le Pen o degli euroscettici inglesi, per non parlare di Alba Dorata, di destra radicale, al 10 percento, sempre in Grecia.
 
 
 

Le destre populiste, le forze in assoluto più critiche nei confronti dell’Europa istituzionale, hanno fatto un buon risultato anche in Austria (circa al 20 percento), Danimarca (oltre il 20 percento) e Ungheria (oltre il 14 percento). La Germania invece conferma lo strapotere della Merkel, vincente oltre il 35 percento. Uno dei dati più sorprendenti però viene proprio dall’Italia, dove il PD vince alla grande col 40 percento e il Movimento 5 Stelle non va oltre il 20 percento.

Volendo vedere in modo accurato i dati dei quattro paesi europei più importanti la situazione sembra radicalizzarsi, ovvero da un lato un asse Francia-Gran Bretagna dove prevale il sentimento anti-UE, con clamorose sconfitte per i partiti tradizionali e l’affermazione della destra populista, vincente per la prima volte da decenni. D’altro canto la Germania e l’Italia si ancorano allo status quo; ma se per la Germania ciò è comprensibile, vista la situazione economica del paese, in salute rispetto al resto del continente, il voto degli italiani rimane abbastanza incomprensibile per certi aspetti.

L’Italia è probabilmente, considerando la sua potenza economica, non paragonabile a nazioni come la Grecia o il Portogallo, il paese che ha subito più danni dall’ingresso nell’eurozona e dalla crisi degli ultimi anni, culminata con l’imposizione di politiche di austerità da parte dell’UE. Ora, in un contesto del genere, bisogna capire perché il popolo italiano ha voluto dare la propria fiducia al PD, ovvero al partito più europeista sulla scena politica nostrana. Certamente non possiamo negare la bassa affluenza, che comunque è alta se si considera il deserto degli altri paesi europei, in alcuni dei quali sono andati al voto il 20 percento degli aventi diritto, ma il dato in percentuale rimane un record: 40 percento, primato mai raggiunto da un partito di centrosinistra nella storia italiana, record anche in Europa dove nessun partito socialista ha raggiunto un risultato del genere in questa tornata.
 

Abbiamo a che fare con una grande anomalia. Un paese di fatto schiacciato dall’Europa, che vota per l’Europa, quando altri grandi paesi, dicono chiaramente no all’Europa. La comprensione di tale fenomeno è veramente complessa; possiamo in questa sede fare solo alcune ipotesi. In primo luogo una giustificazione potrebbe essere data dal fatto che non esiste una alternativa ideologica e programmatica al PD, ovvero a tale “grande centro”, perché di questo si tratta. Il Movimento 5 Stelle non ha un pensiero forte alle spalle, ultimamente non aveva nemmeno un programma forte condiviso al suo interno (Grillo diceva di essere per l’uscita dall’Euro, mentre Casaleggio era contrario); l’unico movimento anti-UE e per l’uscita dall’eurozona, sulla falsariga della Le Pen in Francia, era la Lega, con il suo 6 percento, partito condannato però dal suo regionalismo dalla sua poca presa fuori dal Nord Italia a non poter mai sfondare seriamente. La Le Pen in Francia ha alle spalle un partito radicato, con una chiara ideologia nazionalista, tema questo sentito in Francia, mentre qui in Italia non esiste nulla del genere. Non esiste un partito nazionalista forte, e a dire il vero non esiste nemmeno un sentimento nazionalista forte.

Tra il nulla potenzialmente distruttivo e ulteriormente destabilizzante (5 Stelle), il popolo italiano ha scelto il nulla “tranquillizzante”, il PD, la DC 2.0, una costante della storia italiana. Dopo il ventennio berlusconiano dobbiamo prepararci al ventennio renziano?    

venerdì 23 maggio 2014

Recensione di "La Repubblica Islamica dell'Iran"

Segnaliamo ai lettori del blog la recensione del libro "La Repubblica Islamica dell'Iran" di Ali Reza Jalali - Irfan Edizioni, 2013 - su La Rivista dei Dioscuri



http://www.ips.it/rivistadioscuri/Sommario2-2.pdf





mercoledì 21 maggio 2014

Intervista ad Ali Reza Jalali per "La Voce del Ribelle": Iran, Medio Oriente, Eurasia. Il punto della situazione

 
Lunga ed esaustiva intervista, realizzata all'autore del libro  “La Repubblica Islamica dell’Iran tra ordinamento interno e politica internazionale” (edizioni  Irfan , euro 12,00), Alì Reza Jalali, dottorando in Diritto costituzionale presso l’Università di Verona, ricercatore del “Centro Studi Eurasia e Mediterraneo”, nonché redattore di varie testate, riviste, case editrici e di diversi siti internet, tra cui “European Phoenix”.
Falsi miti e luoghi comuni diradati, per sapere di una regione del mondo che sui media occidentali viene raccontata poco e malissimo.
 
Rispetto al modello occidentale,  come va inteso il concetto di repubblica in Iran? 
In Occidente siamo abituati a intendere, quantomeno nell’età contemporanea, la Repubblica come un modello istituzionale legittimato dal popolo; nell’ambito islamico sciita rivoluzionario, così come parafrasato dall’imam Khomeini, edificatore dell’attuale Stato iraniano, la Repubblica, essendo “islamica”, è caratterizzata per una legittimazione divina dell’ordinamento. In questo modello però il popolo partecipa alla gestione della cosa pubblica, attraverso il tipico metodo delle democrazie, ovvero le elezioni. Quindi il modello iraniano si differenzia concettualmente da quelli occidentali, ma usa il modello della democrazia indiretta da un punto di vista pratico, in quanto le cariche dello Stato, esattamente come avviene in Europa, sono elettive, direttamente o indirettamente, a suffragio universale.   
 
L’Iran ha un governo teocentrico, non teocratico…
Sì, in quanto la teocrazia propriamente detta, ad esempio quella praticata ancora oggi in alcuni ambiti, sia nel mondo islamico che in Europa (Stato del Vaticano), è un modello nel quale, oltre alla legittimazione divina dell’ordine costituito (come in Iran), il popolo, o come direbbero i costituzionalisti, il corpo elettorale, non ha voce in capitolo. Il Santo Padre è eletto da un consiglio del clero che non è eletto dal corpo elettorale, e lo stesso dicasi nelle monarchie teocratiche mediorientali, come l’Arabia Saudita, dove ancora oggi le donne non hanno mai votato e gli uomini votano solo per i consigli locali. Il parlamento in Arabia non è eletto dal popolo, ma nominato dal sovrano. Qui non possiamo nemmeno parlare di “potere legislativo”, in quanto il parlamento saudita non legifera nulla, ma è solo un organo “consultivo” del Re. In Iran invece è meglio parlare di Repubblica teocentrica, o come dicono alcuni studiosi, sia in Iran che in Italia, abbiamo a che fare con una “democrazia religiosa” (in persiano “mardomsalarie dini”). In Iran anche il Capo dello Stato, la Guida della Rivoluzione, pur essendo il suo magistero, almeno concettualmente, legittimato da Dio, è scelto da un consiglio di sapienti religiosi (Consiglio degli Esperti, in persiano “Shoraie khobregan”) a loro volta eletti ogni otto anni dal corpo elettorale; ergo, la carica di Guida è elettiva, indirettamente dal corpo elettorale, come avviene in Italia per il Presidente della Repubblica. 
 
L’autorità dei giurisperiti, «fortezza dell’Islam», proviene non da un mero potere economico, ma dalla profonda conoscenza della legge sciaraitica e dall’intima rettitudine, qualità che per i Musulmani viene ancora prima dell’affidabilità. Parafrasando l’Ayatollah Khomeini, governare significa ubbidire.  
Il “Governo del giurisperito islamico” (in persiano “Velaiate faqih”) è il punto fondamentale dell’ordinamento iraniano, da diversi punti di vista. In primo luogo questo principio rivoluzionario elaborato dall’imam Khomeini ha una valenza concernente il lato del “governo”, del “comando”, dell’”esecuzione”. Attraverso questo principio il Capo dello Stato islamico-rivoluzionario ha, oltre le prerogative costituzionali, il diritto di intervenire negli affari dei poteri dello Stato (esecutivo, legislativo, giudiziario), emanando degli editti speciali che sono indirizzati a enti, cariche collegiali o cariche monocratiche, se non addirittura al popolo stesso. Concretamente però, questo “potere di veto”, nel periodo del magistero dell’attuale Guida, Ayatollah Ali Khamenei, è stato utilizzato una volta “contro” il parlamento (ai tempi della sesta legislatura, tra il 2000 e il 2004), una volta contro la Corte costituzionale (Consiglio dei guardiani della Costituzione, in persiano “Shoraie negahbane qanune asasi”) nel 2005, che aveva estromesso dalla contesa elettorale un famoso candidato antisistema, legato all’ala più oltranzista della sinistra iraniana (riformisti), ovvero Mostafa Moin, che poi, grazie appunto al potere di veto della Guida fu reintrodotto. “Contro” il governo il potere di veto è stato usato due volte, entrambe riguardanti il governo di Ahmadinejad (secondo mandato, nel periodo 2009-2013). In tutto quindi, in circa 25 anni di magistero, l’Ayatollah Khamenei ha utilizzato solo quattro volte il suo potere di veto. 
Però secondo me il lato più interessante, anche da un punto di vista scientifico, della teoria del “Governo del giurisperito”, riguarda il lato “legislativo”, legato non solo all’emanazione delle norme, ma anche alla loro interpretazione. Come tutti sanno, la legge islamica è di derivazione divina e quindi, secondo una lettura classica, non modificabile dall’uomo. Le leggi islamiche sono state emanate 1400 anni fa, in una situazione sociale, economica, culturale e politica particolare. Per non parlare del contesto geografico. Come è possibile edificare uno Stato islamico nel XX-XXI secolo, volendo applicare delle norme che col contesto storico attuale non hanno molto a che vedere? La risposta ci arriva dall’imam Khomeini, che negli ultimi anni della sua vita, dopo anni di studi e di militanza, arriva a questa conclusione: “Se fosse necessario, per il bene della comunità islamica e dell’ordinamento, il giurisperito potrebbe arrivare anche a sospendere alcuni obblighi, come il Hajj (pellegrinaggio a Mecca e Medina, obbligatorio almeno una volta nella vita per i musulmani)”. Ciò vuol dire che in base alle circostanze storico-temporali, il leader della comunità islamica, per il bene della società e dello Stato, potrebbe vietare una cosa che Dio ha reso lecita, se non obbligatoria. La carica progressista del “Governo del giurisperito” sta proprio qui, in quanto attraverso questa lettura rivoluzionaria dell’islam, vi è la possibilità di modernizzare e rendere applicabile nelle varie epoche storiche e in diversi contesti culturali e geografici, un qualcosa di stabile. Attraverso questo principio, l’islam da “statico” diventa “dinamico”. Non a caso lo stesso imam Khomeini disse: “Il più progressista (in persiano “motaraqqi tarin”) dei principi della Costituzione iraniana è il principio del governo del giurisperito islamico”. Ovviamente una lettura dell’islam di questo tipo a molti sapienti religiosi tradizionalisti, conservatori e quietisti non va bene, in quanto ribalta mille anni di approccio ormai consolidato. L’applicazione completa di questo principio richiederà molto tempo, decenni o secoli; lo Stato iraniano attuale è stato edificato nel 1979, quindi siamo solo agli albori di questo processo. L’emanazione di norme concernenti il cambio di sesso, l’aborto ecc., sono segnali dell’applicazione di questo principio, ma la strada è molto lunga e bisognerà considerare sempre le istanze del popolo, ma anche quelle dei tecnici e degli addetti ai lavori, ovvero i dottori della legge islamica.   
 
Crede che in Iran il sistema politico non partitocratico influisca sull’enorme affluenza elettorale?
In effetti il sistema iraniano non è partitocratico, non nel senso che non ci siano i partititi. In Iran esistono decine di partiti politici legali, ma il punto è che essi non hanno un gran peso elettorale. L’iraniano medio quando si reca alle urne non guarda il partito o i partiti che sostengono un candidato, ma il candidato stesso, personalmente. La buona affluenza alle urne in Iran, soprattutto per le elezioni presidenziali, che sono, visto il modello “pseudo-presidenziale” iraniano - non omologabile semplicemente - una mezza via tra il presidenzialismo all’americana, il semipresidenzialismo alla francese o il parlamentarismo all’inglese, deriva secondo me dalla buona istruzione e dall’alto tasso di alfabetizzazione e di laureati nel paese mediorientale. Tutto ciò è associato al forte sentimento nazionalista degli iraniani, che si sentono responsabilizzati nei confronti del futuro del proprio paese. Penso che i principali motivi che spingono gli iraniani a votare siano questi. Se confrontiamo il grado di partecipazione elettorale in Iran con altri paesi del mondo islamico vediamo la differenza. In Iran siamo ad una media del 67-68 percento (elezioni presidenziali), con picchi oltre l’80 percento come nel 2009, senza dimenticare il 73 percento delle recenti consultazioni dello scorso 14 giugno. In altri paesi islamici, a parte qualche eccezione, non è assolutamente così.  
 
La forza del governo iraniano è di coniugare il potere temporale all’autorità spirituale, a differenza dell’Occidente, che, dopo avere disgiunto lo Stato dalla religione, sembra precipitato in un’incurabile schizofrenia per cui il buon politico risulta essere quello meno etico…
Una caratteristica tipica della cultura iraniana è di associare la sfera spirituale a quella temporale, soprattutto a livello istituzionale. Se studiassimo la storia iraniana, dall’antichità ad oggi, ci accorgeremmo di questo fatto in modo indiscutibile. Ciro il Grande era legittimato da Dio. Shah Abbas della dinastia Safavide era legittimato da Dio. Mohammad Reza Pahlavi era legittimato da Dio. Lo stesso avviene per la Guida della Rivoluzione. Questo è un tratto tipicamente iranico, il potere politico per essere riconosciuto dal popolo deve essere legittimato dalla religione, altrimenti rischia di decadere. Uno dei motivi che spinse il popolo iraniano a ribellarsi allo Shah, fu quello di vedere un’importante personalità del clero, l’imam Khomeini, al contrario di altri suoi colleghi, sicuramente illustri e scientificamente validi, ma meno carismatici, mettersi contro il regime. Lì era venuta meno la legittimazione dello Stato. Tutto ciò è stato possibile però per via del fatto che la religione in Iran, ieri come oggi, ha ancora un senso spirituale, basta vedere come sono commemorate certe ricorrenze religiose, partecipate da tutti gli iraniani, anche quelli che magari non vedono di buon occhio l’attuale dirigenza. Il giorno che l’attuale Stato perderà la propria giustificazione religiosa, anche esso cadrà come è successo per gli altri regimi della storia iraniana. In Europa il popolo non è legato alla spiritualità e alla religione, al massimo vi è un richiamo retorico, ma nulla di più. Questo non vuol dire che gli iraniani siano dei santi e gli europei no. È solo un diverso approccio. L’iraniano, anche quello non religioso, quando sente parlare dei santi dell’islam sciita, come l’Imam Hussain, si emoziona e si commuove. Tante volte ho visto coi miei occhi miei parenti, non religiosi e nemmeno sostenitori della Repubblica Islamica, commuoversi a Mashad, dinnanzi alla visione del mausoleo dell’Imam Reza; questa è la vera forza dell’Iran rivoluzionario. In Europa ci commuoviamo solo se vediamo dal vivo il nostro cantante preferito. In Europa c’è un sentimento di simpatia nei confronti della politica solo se l’economia va bene, altrimenti vi è una forte e crescente disaffezione, come in questi anni. In Iran oltre al lato economico, pur sempre importante, vi sono anche altri fattori, come la spiritualità. È una questione di mentalità e di approccio culturale, ancora prima che istituzionale e politico.  
 
L’Iran ha dimostrato perfettamente come il progresso tecno-scientifico non sia in antitesi con la Tradizione, anzi, senza di Essa, come ebbe a dire lo stesso Khomeini, ogni potenza e ricchezza materiale rappresenterebbero un  guaio per l’anima dell’uomo…
Forse il più grande successo dell’Iran rivoluzionario è proprio questo; dimostrare al mondo che religione e sviluppo scientifico non sono in antitesi. Mi dilungherei troppo se volessi parlare di come venivano trattati gli scienziati in Europa al tempo del dominio della Chiesa, e lo stesso vale, anche se in misura diversa, presso certi paesi musulmani nel Medio Evo. Ancora oggi trovare un paese musulmano scientificamente valido, in modo indipendente e grazie alla ricerca di propri scienziati, (non come avviene nei paesi arabi del Golfo Persico, dove tutto è di importazione; senza i tecnici di altri paesi, che non siano europei, nordamericani, libanesi, turchi, cinesi, coreani, giapponesi o iraniani, quelli non riuscirebbero a costruire nemmeno una tenda nel deserto), è un’impresa ardua. L’Iran è forse l’unico paese islamico ad avere un serio programma spaziale, è uno dei pochi paesi islamici a vantare una ricerca scientifica avanguardistica sulle cellule staminali, per non dire dei “paper” scientifici pubblicati. La Repubblica Islamica dell’Iran è prima al mondo come crescita scientifica nell’ultimo decennio. Ma è bene ricordare che spesso religione e sviluppo scientifico sono in antitesi. La storia questo ci dice. Quando il dogmatismo religioso avanza la scienza arretra. In Iran si è riusciti a conciliare scienza e religione solo grazie all’interpretazione “progressiva” dell’islam sciita fatta dall’imam Khomeini, altrimenti, rimanendo in un’ottica islamica, sunnita o sciita, di stampo “dogmatico” e “reazionario”, non si sarebbe andati da nessuna parte lo stesso.
 
Può spiegare il ruolo geopolitico e finemente strategico di Israele nel colonialismo perpetrato dagli USA? 
Il principale alleato degli USA in Medio Oriente è senza ombra di dubbio Israele (senza dimenticare però il ruolo dei sauditi); è così da almeno cinquant’anni. Gli USA hanno usato Israele come “guardia armata” dei propri interessi strategici nella regione. In pratica, fino a oggi, gli abitanti di Israele hanno dovuto fare da “scudi umani” per i comodi degli americani. Fino a quando Israele era la potenza militare principe della regione questa situazione aveva un senso per entrambi gli attori, sia per gli israeliani che per i nordamericani, in quanto gli USA non ci mettevano la faccia direttamente, e hanno iniziato a farlo in modo netto solo dopo il crollo dell’URSS, e Israele aveva un ruolo di leadership regionale indiscusso, visto che gli arabi non erano mai riusciti a sconfiggere Israele in guerra. Dopo la Rivoluzione islamica in Iran e con l’inizio della creazione di Hezbollah e altri gruppi affiliati in Libano, la situazione regionale progressivamente è cambiata; poco più di dieci anni fa Israele si ritirò dal Libano meridionale, praticamente senza chiedere una contropartita ai gruppi libanesi filoiraniani. Poi la guerra del 2006 ha segnato una sconfitta per Israele, che era partito con l’obiettivo dichiarato di sconfiggere Hezbollah, ma dopo 33 giorni dovette ritirarsi e accettare il cessate il fuoco, per via del fitto lancio di razzi dal libano verso Israele. Insomma, una sconfitta militare vera e propria. Le guerre di Israele contro Gaza poi hanno dimostrato ormai una certa difficoltà di Tel Aviv nel proporre strategie militari vincenti. Non a caso il principale ruolo nella destabilizzazione siriana non è riconducibile a Israele, nonostante i suoi interventi diretti nel conflitto che vede gli oppositori di Assad, ovvero gli integralisti islamici, contro le forze governative sostenute a livello internazionale da Hezbollah, Iran e Russia, ma alla Turchia, che insieme all’Iran, sono i due veri pesi massimi della politica mediorientale. Israele ormai rischia seriamente di essere abbandonato da Washington. Agli americani non conviene più un sostegno rigido a favore di Tel Aviv. Come spesso accade, gli USA usano i propri alleati, per poi abbandonarli quando il loro aiuto non è più funzionale. A Tel Aviv lo sanno, e sono abbastanza inquietati. Anche un filoisraeliano come Kissinger qualche mese fa disse: “Entro dieci anni l’esperienza israeliana dovrebbe giungere al termine”. Gli USA sembrano per i prossimi decenni puntare più che altro sulla Turchia, per cercare di ridimensionare l’Iran, più vicino a Russia e Cina. Israele rimane un alleato di ferro per gli USA, ma nel futuro potrebbero cambiare gli equilibri regionali.  
 
Solo le scissioni interne, attraverso la secolarizzazione e balcanizzazione, possono dare potere al nemico esterno…
Sì, è ancora validissimo il motto “divide et impera”. Un avversario forte e unito è più difficile da sconfiggere di uno diviso e debole, demotivato, che non abbia degli ideali, giusti o sbagliati che siano, per cui lottare. Fare la guerra per il dominio materiale, può essere un motivo giustificabile per i “capi”, per chi non ci rimette la pelle, non di certo per chi combatte sul terreno e rischia la vita. Una persona senza ideali sul campo di battaglia combatte solo se è meglio armato, altrimenti fugge. Per l’uomo materialista i soldi sono importanti, ma la vita è la cosa più importante in assoluto. Per l’uomo religioso invece la morte è solo un passaggio da uno stato ad un altro, non la fine. Questo individuo, giusto o sbagliato che sia il suo “modus cogitandi”, nella lotta e nella morte sul campo di battaglia vede la possibilità di unirsi all’Essere, al Bramato. Per questo a mio avviso nella strategia adoperata dagli USA e da Israele, per ridimensionare il ruolo iraniano in Medio Oriente, è fondamentale la propaganda mediatica, su internet o sui canali satellitari, per promuovere in Iran una cultura a-religiosa. Un uomo senza ideali è più facile da soggiogare. La religione impregnata di dogmatismo può essere l’oppio dei popoli, ma la mancanza di valori forti, lo è altrettanto. Per quanto riguarda invece la balcanizzazione, è sotto gli occhi di tutti l’implosione del Medio Oriente, dal Nord Africa all’Afghanistan. In questa regione del mondo, tutti i paesi sono nel caos, recentemente anche la Turchia. Quando non ci sono moti di quel genere, ci sono guerre fratricide propriamente dette, come in Iraq, in Siria o altri paesi. Ormai il Medio Oriente progettato da inglesi e francesi cento anni fa, è giunto al capolinea. Molti paesi nei prossimi anni andranno incontro a maggiore caos, e tutto porterà ad un nuovo accordo per la spartizione dell’area. Cento anni fa sostanzialmente due potenze hanno deciso tutto. La guerra in Siria e nel Vicino Oriente, che sta influenzando anche il Libano e potrebbe dilagare ulteriormente, serve, anche se è brutto da dirsi, a capire quali saranno le potenze che si sederanno al tavolo della pace e si spartiranno il Medio Oriente. Sicuramente saranno della partita USA, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina. Avranno un ruolo anche l’Iran (uno dei veri vincitori della guerra siriana, anche grazie al suo alleato di ferro Hezbollah) e la Turchia. Ho l’impressione che gli altri attori regionali faranno da soprammobili, e per quanto riguarda Israele, la sua vicinanza eccessiva all’area di crisi (Israele è l’unico paese a confinare sia con il Libano che con la Siria, entrambi in subbuglio) sarà un problema che prima o poi danneggerà in modo drastico Tel Aviv. Anche per questo oggi gli israeliani da un lato vogliono la caduta di Assad, per sconfiggere l’Iran e Hezbollah, ma d’altro canto non forzano la mano, in quanto sanno che gli integralisti islamici che stanno combattendo contro Assad, sono troppo fanatici, e un domani potrebbero creare problemi anche per Israele; insomma, comunque vada, per Tel Aviv rischia di essere un insuccesso.  
 
Quali sarebbero i vantaggi dell’alleanza tra la Russia e l’Iran?
Nella situazione internazionale attuale, dove la principale crisi che coinvolge Tehran e Mosca è quella siriana, al fianco di Assad e della Repubblica Araba di Siria, Russia e Iran sono costretti ad una intensa collaborazione. La caduta di Assad vorrebbe dire perdere il principale alleato arabo per i due paesi, e in chiave geopolitica vorrebbe dire l’avanzamento delle forze legate o vicine alla NATO sia verso l’Iran che verso la Russia. In un altro contesto Russia e Iran potrebbero anche essere, data anche la vicinanza geografica e data l’enorme disponibilità energetica di entrambi, concorrenti naturali. Ma l’unilateralismo della NATO e degli arabi nel sostegno all’opposizione siriana e nella guerra contro la Siria e il suo governo, ha di fatto neutralizzato alcune incomprensioni e difficoltà tra Mosca e Tehran. Addirittura secondo alcuni analisti vi sarebbe un lavoro in perfetta armonia tra Iran (e Hezbollah) e la Russia in Siria. Tehran e Hezbollah si occuperebbero di questioni sul territorio e i russi terrebbero a bada gli avversari attraverso la deterrenza, ad esempio spostando le navi militari nel Mediterraneo orientale e fornendo missili sofisticati alla contraerea damascena. Inoltre negli scorsi mesi per la prima volta nella storia recente navi militari russe hanno attraccato nei porti iraniani. L’asse Russia-Iran in questo momento è fondamentale per evitare la caduta dello Stato siriano, ma anche per ostacolare le ambizioni atlantiste nel Medio Oriente.
 
Non la religione, ma il potere mediatico imbastito di menzogna e di ipocrisia è il vero “oppio del popolo” occidentale 
Se ciò è vero in generale, è ancora più vero per quello che riguarda la propaganda mediatica occidentale sull’Iran. Quantificare le menzogne e la disinformazione sul paese mediorientale presenti ad esempio sui media più importanti dell’Italia è un’impresa ardua. Ciò deriva sia da motivi politici, ma anche da una mancanza di conoscenza oggettiva. Poi devo essere onesto, anche gli iraniani presunti “esperti” ai quali si rivolgono gli amici italiani per informarsi correttamente ci mettono del loro, per confondere ulteriormente le idee della gente. Per non parlare poi di certi sostenitori dello Stato iraniano, che invece di aiutare la reciproca comprensione, si fanno degli autogol clamorosi. Insomma, fare un’informazione seria sull’Iran, per tutti questi motivi non è semplice. Con uno slogan potrei dire questo: l’Iran è un paese migliore di quello che viene propagandato nei media, e non così bello come vorrei che fosse. 
 
Dicono che con il nuovo presidente Rohani, l’Iran sarà più moderato – come se i nostri presidenti lo fossero – è d’accordo con questa dichiarazione?
Hassan Rohani rappresenta sicuramente un moderato in diversi ambiti; lui stesso in campagna elettorale ha detto “io non sono di destra, e nemmeno di sinistra; sono un moderato”. Dopo le elezioni una delle sue prime dichiarazioni è stata: “Questa è la vittoria della moderazione sull’estremismo”. Penso che la sua “moderazione” sia riconducibile principalmente all’approccio in alcune questioni della politica interna iraniana e della politica estera. Ad esempio si è subito capito che il parlamento iraniano ha accolto positivamente l’elezione di Rohani e addirittura Qalibaf, il primo degli sconfitti nelle elezioni presidenziali, ha espresso la volontà di mettere a disposizione del presidente neoeletto il suo programma elettorale per una collaborazione. Penso che il gabinetto di Rohani sarà una “grande coalizione” tra rifomisti e conservatori “moderati”, una cosa che metterà d’accordo tutti, almeno nel breve periodo. In politica estera dobbiamo dimenticarci l’approccio di Ahmadinejad, simile anche in politica interna, basato sull’intransigenza e su alcune esternazioni e modi di fare non apprezzati sia in Occidente che in Iran, almeno tra i politici. Non vi sarà un cambiamento “sopra i massimi sistemi”, ma un cambiamento negli approcci.  
 
Il messaggio portante di Khomeini resta la “twara”: perseguire e realizzare la giustizia divina anche attraverso le battaglie sociali – laddove l’Alto informa il basso e non il contrario – Per tale ragione,  quella del 1979 è stata, prima di tutto, una Rivoluzione spirituale?
Nella prefazione di un libro di Rene Guenon (“La crisi del mondo moderno”), troviamo scritto un concetto del genere: rivoluzione vuol dire, come avviene ad esempio nel moto degli astri, che partono da un punto, e dopo un giro completo, tornano da dove erano partiti, “ritorno alle origini”. La Rivoluzione spirituale si caratterizza per un ritorno alla natura primordiale dell’essere umano, ovvero una natura basata su due concetti fondamentali: “giustizia” e “spiritualità”. Quando parliamo di giustizia, soprattutto nella cultura sciita, intendiamo non solo la giustizia divina, ma anche quella umana. Una società religiosa dove non ci sia giustizia sociale, dove i “preti cortigiani”, per dirla con l’imam Khomeini, pensano ai loro affari e si ingrassano di più ogni dì che passa, non può essere un modello. La giustizia divina si può realizzare solo con l’impegno degli uomini rivoluzionari, per edificare la giustizia sociale in questo mondo. Giustizia e spiritualità sono concetti rivoluzionari che devono essere centrali per l’umanità, se uno dei due canoni non è rispettato si creano squilibri, individualmente e socialmente. Nell’ottica islamica sciita, l’essere umano ha l’obbligo di intraprendere un viaggio rivoluzionario lungo la sua vita, per edificare sia l’uomo perfetto, sia la società perfetta. Questo processo sarà completo con l’avvento del Mahdi, l’essere perfetto, che guiderà l’umanità, al di là delle varie razze, lingue e religioni, verso la meta sempiterna, la Giustizia e la Spiritualità, doni divini per tutti gli esseri umani. La Rivoluzione islamica in Iran nel 1979 quindi, rappresenta un punto fondamentale in questo processo, che tende non a “islamizzare” il mondo come alcuni pensano superficialmente, ma a promuovere i due concetti suddetti, che poi vengono parafrasati dai vari popoli del mondo, in base alle varie culture. L’islam in Iran non è uguale a quello di altri paesi, anche sciiti. Quindi ciò non vuol dire omologazione o totalitarismo, ma l’unità degli esseri umani per un progetto sociale, politico e soprattutto etico.   
 
L’Eurasia, una forma di “Tawhīd” non soltanto geopolitico?
L’Essere è uno, la natura primordiale dell’essere umano è una, il pianeta in cui viviamo è uno. Anche il continente in cui viviamo, europei e asiatici, italiani e iraniani, è uno. L’unità del continente è evidente: dalla Penisola iberica e dalle coste atlantiche alle cose cinesi, il continente non subisce cesure nette. Il Bosforo, il Caucaso e il Mar Caspio, più che dividere, uniscono l’Europa all’Asia. Il monoteismo musulmano è rappresentato dal concetto arabo di “Tawhid”, che è strettamente legato ai concetti, provenienti da una stessa radice etimologica, di “wahed” (uno), “ittihad” (unità, alleanza) e di “ahad” (unico). Quindi ciò che è l’unità in ambito metafisico, ovvero l’unicità dell’Essere, può avere un riflesso nel “mondo inferiore”, per usare un gergo caro al filosofo musulmano Farabi, ovvero nel mondo di noi comuni mortali. Ciò è l’unità tra gli esseri umani e i popoli, soprattutto quelli che vivono in un macro-spazio geografico unito e coeso, come l’Eurasia. Questa può essere l’Eurasia intesa come “Tawhid”, manifestazione materiale e geografica dell’unicità divina. Da un punto di vista geopolitico il pensiero eurasiatico è stato sviluppato negli ultimi anni in ambito russo, principalmente da personaggi come Alexander Dugin; egli nei suoi lavori tende a delineare i tratti che possono caratterizzare un pensiero geopolitico in antitesi rispetto all’atlantismo. Dugin sottolinea come la potenza centrale del continente eurasiatico sia la Russia che, attraverso delle alleanze con alcuni attori regionali (ad esempio Cina, India, Iran ecc.) riesca a creare un sistema strategico da contrapporre alla NATO. Il Trattato di Shanghai può essere considerato come un passo fondamentale verso l’unità eurasiatica indicata da Dugin, ma egli sottolinea come l’eurasiatismo non sia una scuola statica, ma dinamica, e la prospettiva con la quale si studia l’unità dell’Eurasia può cambiare. Essere eurasiatisti in Russia è una cosa, esserlo in Iran è un’altra, in Italia un’altra ancora. L’Eurasia non è solo geopolitica, è spiritualità, cultura, storia, civiltà e molto altro ancora.    
 
Intervista raccolta da Fiorenza Licitra

http://www.ilribelle.com/quotidiano/2013/6/20/iran-medio-oriente-eurasia-il-punto-della-situazione.html

domenica 18 maggio 2014

Conferenza a Bologna sul Medio Oriente e l’Iran: resoconto

DA SINISTRA: IACOBELLIS, ZANARINI E JALALI

 

Sabato 17 maggio alle ore 17:30 si è tenuto un incontro sulla politica in Medio Oriente e in Iran a Bologna, meeting organizzato dal gruppo culturale “Virtute e canoscenza” (1).  

Sono intervenuti come relatori Manuel Zanarini, Alessandro Iacobellis e Ali Reza Jalali.

Manuel Zanarini, del gruppo culturale “Virtute e canoscenza”, ha introdotto l’argomento della geopolitica in generale e della prospettiva eurasiatica in particolare, moderando anche l’incontro.

Alessandro Iacobellis, esperto di geopolitica mediorientale, intervenuto successivamente, ha presentato il pensiero politico del Partito Baath, il movimento socialista arabo, fondato da Michel Aflaq, con un ruolo di governo fondamentale in Iraq fino al 2003, anno dell’invasione americana che ha abbattuto il regime di Saddam Hussein, senza dimenticare la Siria, paese retto dal Baath ancora oggi, sotto la guida di Bashar Assad, che ha resistito per più di tre anni (dal marzo del 2011) a una guerra sanguinosa contro i ribelli islamisti sostenuti da alcuni paesi mediorientali e dalla NATO.

Dopo questo intervento ha preso la parola Ali Reza Jalali, studioso di questioni legate al mondo islamico e all’Iran, che ha introdotto i temi dell’ordinamento costituzionale iraniano, la politica interna e il pensiero di Mahmoud Ahmadinejad, controverso presidente iraniano dal 2005 al 2013, e del ruolo geopolitico della Repubblica Islamica dell’Iran nel contesto mediorientale, alla luce dell’emergere di uno scontro settario senza precedenti negli ultimi decenni, tra sciiti e sunniti nella regione.

Successivamente è stato aperto un dibattito pubblico che ha coinvolto gli uditori con alcune domande, incentrate principalmente sull’Islam, la questione femminile in Iran, la finanza islamica e le relazioni internazionali alla luce dell’emergere della potenza russa in Medio Oriente e in Eurasia.

 

domenica 11 maggio 2014

Alcune considerazioni sull’obbligatorietà del velo per le donne in Iran. Nota ad un articolo di Tiziana Ciavardini su "La Repubblica"

 
Ali Reza Jalali
 
 
Il quotidiano “La Repubblica” qualche giorno fa riportava un articolo (1), firmato dall’amica Tiziana Ciavardini, sulla questione del velo per le donne iraniane. Veniva riportato in particolare l’episodio di una sorta di protesta on line delle donne e ragazze del paese persiano, attraverso la pubblicazione massiccia sui social network di foto che ritraevano le donne iraniane senza velo, all’aperto. In Iran vige una norma, giustamente richiamata anche nell’articolo di Tiziana Ciavardini, in base alla quale le donne sono obbligate ad avere un abbigliamento consono ai principi islamici, quindi a coprirsi il corpo, ad esclusione delle mani e del viso. La norma prevede una pena pecuniaria o il carcere fino a un paio di mesi per i trasgressori e a vigilare sull’applicazione di tale legge ci sono in Iran delle forze di polizia predisposte, la Gashte ershad (letteralmente “Ronda educativa”), una sorta di polizia dedita al rispetto del “buon costume”. Il responsabile di questa campagna mediatica perseguita principalmente su Facebook, come riporta correttamente l’articolo de “La Repubblica” è Masih Ali-Nejad, sulla quale avevo avuto modo di esprimermi già diverso tempo fa (2), una giornalista iraniana che vive ormai lontano dalla sua patria da diversi anni.
L’articolo suddetto mi ha spinto a scrivere qualche riga per fare qualche brevissima riflessione sulla situazione in Iran per ciò che concerne le donne, in particolare la questione del velo. L’argomento è molto complesso e richiederebbe un trattato apposito (3); non è qui mia intenzione affrontare il problema in modo approfondito. Dico solo questo: l’articolo di Tiziana Ciavardini dice una grande verità, soprattutto in un passaggio: “L'Hijab, cosí é chiamato in Iran il velo che copre la testa e non permette di mostrare i capelli. Malgrado una grande parte della popolazione indossi volontariamente l'Hijab con senso di appartenenza sia per motivi culturali che religiosi, un'altra parte è fortemente contraria a questa imposizione.” Nessuna persona ragionevole potrebbe negare questo fatto, sia che voglia criticare il modello statuale iraniano attualmente in vigore, sia che voglia difenderlo. Evidentemente la situazione attuale a livello normativo è un “favore” alla parte più religiosa del paese (4), e nega la possibilità a una parte consistente della popolazione femminile, non so se maggioritaria o minoritaria (5), di non portare il velo, in base alle proprie credenze culturali. Un sistema che voglia essere onnicomprensivo deve tenere in considerazione le istanze di tutti, della maggioranza e della minoranza, altrimenti si cadrebbe nell’imposizione della volontà assoluta della maggioranza, una forma di autoritarismo. Ma il problema in Iran è che le norme, in base alla Costituzione, devono essere il linea con i principi islamici. Ciò è previsto però anche in altri paesi musulmani, ad esempio in Iraq e altri ancora, ma in quei contesti il velo non è obbligatorio. Perché? In Iran l’aspetto islamico è stato interpretato in modo totalizzante, per cui non vi è alcun margine di scissione tra pubblico e privato. Quando si chiede a un giurista musulmano iraniano di stampo conservatore, perché la normativa sul velo deve essere così ferrea, partendo dal presupposto che la scelta del velo è una scelta privata e intima, la risposta è la seguente: portare il velo o non portarlo non implica solo una scelta privata, in quanto la donna che non lo porta si muove nella società. La sua presenza nel sociale implica l’attenzione da parte degli uomini e ciò potrebbe essere la base per la corruzione della società e per la promiscuità sessuale.
Quindi in Iran vi sono queste visioni contrapposte, ed entrambe, come sottolinea l’articolo de “La Repubblica”, hanno una loro diffusione nel paese mediorientale. Dal ‘79 fino a oggi - in quanto alla fine la politica e la produzione normativa, derivante dall’attività dei politici si basa sui rapporti di forza e nel concreto poco importa che il diritto sia di matrice divina o secolare, in quanto è sempre l’uomo di carne e di sangue il suo interprete - la componente religiosa e conservatrice ha prevalso. Non è detto che ciò possa prevalere sempre ovviamente. Bisogna anche capire che l’ordinamento della Repubblica Islamica iraniana è il frutto di una violenta reazione ad una occidentalizzazione forzata dei costumi imposta dal regime monarchico precedente. La politica, il diritto e gli ordinamenti, non sono altro che il frutto di alcune contingenze storiche e culturali. Passate e modificate quelle contingenze, si modificano anche le politiche e gli ordinamenti. Forse senza il “liberalismo culturale imposto” dello Shah, nemmeno ci sarebbe stata la “rivoluzione islamica”.  
 
 
(3)    In generale sulla situazione femminile in Iran vedi http://www.eurasia-rivista.org/donne-in-iran/15798/  
(4)    Anche qui però bisognerebbe sottolineare una cosa: non tutte le donne di impostazione tradizionalista, e ciò vale anche per gli uomini, sono d’accordo con una legislazione che neghi alle donne che non vogliono portare il velo di poterlo fare.
(5)    Probabilmente tra le persone che vivono in città la percentuale che vorrebbero un regime normativo “liberale” sul tema del velo aumenta e lo stesso dicasi tra i ceti sociali più alti e con un’istruzione più elevata, e tra i giovani. Nelle campagne e tra le persone più anziane l’impostazione è antitetica.   


martedì 6 maggio 2014

“LA RESURREZIONE DEGLI ARABI”. IL VERO VOLTO DELLE PRIMAVERE ARABE: evento a Bologna



 
 
“LA RESURREZIONE DEGLI ARABI”


IL VERO VOLTO DELLE PRIMAVERE ARABE

SABATO 17 MAGGIO ORE 17.30

Analisi geopolitica ed approfondimento della situazione attuale mediorientale.
Interverranno:
- Alessandro Iacobellis, esperto in geopolitica ed autore dell'introduzione
del libro “La resurrezione degli arabi” di Michel Aflaq - Edizioni All'insegna del veltro
- Alì Reza Jalali, esperto in relazioni internazionali ed autore del libro "Giustizia
e Spiritualità" il pensiero politico di Mahmoud Ahmadinejad - Anteo Edizioni
- Manuel Zanarini, gruppo culturale “Virtute e Canoscenza”
La conferenza si svolgerà presso “0steria del Borgo”
in VIA SILVIO PELLICO 4//B – 40132 BOLOGNA
Per info e contatti cerca su fb “Virtute Canoscenza”
Oppure contattaci alla mail virtutecanoscenza.info@gmail.com 




EVENTO ORGANIZZATO DA GRUPPO CULTURALE

“VIRTUTE E CANOSCENZA”