martedì 28 gennaio 2014

"Intrigo contro la Siria": evento a Parma (Foto)

Domenica 26 gennaio 2014 si è tenuto a Parma un incontro dal titolo: "Intrigo contro la Siria". L'evento è stato organizzato da Stato e Potenza e ha visto come ospiti S. Bonilauri di "SeP", Padre A. Rahal, sacerdote cristiano maronita siriano, S. Kahani, blogger e Ali Reza Jalali, ricercatore iraniano. Il dibattito pubblico ha affrontato i recenti risvolti della crisi siriana e la situazione mediorientale. (FOTO)







giovedì 9 gennaio 2014

Alireza Jalali all'IRIB: dopo Siria, Usa vorrebbero indebolire Iran

Alireza Jalali all'IRIB: dopo Siria, Usa vorrebbero indebolire Iran (AUDIO)

TEHERAN (RADIO ITALIA IRIB) - Alireza jalali, saggista ed analista del Medio Oriente e del mondo islamico parlando ai nostri microfoni ha detto:"
Abbiamo visto che dall'inizio della primavera Araba, gli stati Uniti e l'Arabia Saudita hanno in qualche modo sostenuto queste primacere e in Siria questo sostegno e' stato molto palese e ricordiamoci che in Siria c'e' l'unica base russa in Medio Oriente....


"Intrigo contro la Siria": evento a Parma

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Domenica 26 gennaio 2014 si terrà a Parma un incontro dal titolo: "Intrigo contro la Siria". L'evento è organizzato da Stato e Potenza e vedrà come ospiti S. Bonilauri di "SeP", Padre A. Rahal, sacerdote cristiano maronita siriano e Ali Reza Jalali, ricercatore iraniano. Il dibattito pubblico verterà sui recenti risvolti della crisi siriana e sulla situazione mediorientale. 

venerdì 3 gennaio 2014

Stati Uniti e Vaticano: una relazione complicata

Stati Uniti e Vaticano: una relazione complicata

A cura di Ali Reza Jalali
USflag_Vatican_52602541Lo stato del Vaticano è uno dei pochi paesi al mondo ad avere, sin dalla sua fondazione, ovvero negli anni ’20 del secolo scorso, una chiara matrice religiosa. Il Vaticano infatti è per eccellenza lo stato del cattolicesimo e della Chiesa occidentale; è vero che le sue radici vanno ricercate a dopo la caduta dell’Impero romano d’occidente, quando la penisola italiana fu suddivisa in zone d’influenza tra le varie popolazioni barbariche (soprattutto i longobardi), l’Impero romano d’oriente e il Patrimonio di San Pietro, antenato del moderno stato pontificio, anche se con una estensione non paragonabile a quella attuale. Ma il moderno stato del Vaticano nasce quando l’Italia “proletaria e fascista”, per usare un gergo mussoliniano, concede al Papa una zona di Roma, per esercitare una propria autorità autonoma dallo stato monarchico italiano. Quei famosi “Patti lateranensi”, siglati negli anni Venti del XX secolo, diedero vita a un nuovo stato sovrano, riconosciuto in pochi anni da molti paesi della comunità internazionale. Interessante notare però, che la principale potenza mondiale, almeno dalla Seconda Guerra Mondiale ad oggi, ci ha messo molti decenni prima di riconoscere l’esistenza del Vaticano come stato sovrano. Infatti, solo nel 1984 arrivò il riconoscimento degli USA. Perché i nordamericani ci hanno messo così tanto a riconoscere la sovranità e l’indipendenza dello stato pontificio? Prova a dare una risposta a questo quesito lo studioso e docente universitario Romano Vulpitta, professore emerito dell’Università di Kyoto in Giappone, grazie al capitolo “L’antiamericanismo di matrice cattolica” all’interno del volume “L’antiamericanismo in Italia“, libro pubblicato nel 2012 dalle edizioni “Settimo Sigillo”.
Uno dei motivi che potrebbero aver spinto i nordamericani a non riconoscere l’indipendenza e la sovranità del Vaticano, secondo l’opinione del prof. Vulpitta, potrebbe essere riconducibile all’astio tra protestanti e cattolici. Lo studioso infatti scrive: “Anche se pochi si rendono conto di questa realtà (ovvero della diffidenza reciproca tra USA e Vaticano, n. d. r.), gli Stati Uniti, che sono stati fondati da gruppi di protestanti puritani venuti dall’Inghilterra per sfuggire alle persecuzioni, sono l’unico paese moderno, a parte Israele, ad avere un’origine religiosa. E questo carattere religioso, sia pur laicizzato, continua a pervadere la società americana. Per la Chiesa cattolica i Puritani erano riguardati come eretici tra gli eretici. Questi dal canto loro provavano profonda avversione per la Chiesa di Roma, e questa avversione continua ad essere viva tra i protestanti americani.” (1)
Ovviamente ridurre il tutto a una disputa puramente religiosa è superficiale, ma possiamo riscontrare, anche solo a livello ideologico, forti attriti tra la cultura cattolica e quella nordamericana; è innegabile ad esempio che i padri fondatori degli USA, erano tutti ferventi adepti della massoneria, così come i loro colleghi europei, dalla quale fuoriuscirono i principali movimenti rivoluzionari del Sette-Ottocento europeo, dalla Rivoluzione francese al Risorgimento italiano. La cultura massonica, e ciò è noto a tutti, ha una forte componente antireligiosa e anticlericale. La Chiesa romana ha visto per tantissimo tempo gli stati repubblicani o monarchici nati dall’Illuminismo, dagli USA alla Francia, passando per la stessa Italia, come ordinamenti satanici figli della massoneria, frutti del demonio voluti per stroncare il dominio della cristianità autentica e del cattolicesimo. Romano Vulpitta riguardo ai rapporti tra massoneria e Chiesa cattolica scrive: “La massoneria era considerata come una sorta di religione laica basata sulla verità naturale e per questo era vista come la negazione della visione cattolica del mondo e come il peggiore dei mali portati dalla modernità. Pertanto i Gesuiti, che erano la punta di diamante nella lotta alla massoneria, mostravano diffidenza nei confronti degli Stati Uniti e la loro rivista Civiltà Cattolica fino agli inizi degli anni Quaranta, quando cioè i rapporti tra Stati Uniti e Santa Sede sono diventati amichevoli (in funzione anticomunista e antisovietica, cosa che ha coinvolto poi anche non pochi eredi del fascismo nostrano, in una crociata totale contro il bolscevismo italiano ed internazionale, n. d. r.), ha mantenuto un atteggiamento spiccatamente antiamericano.” (2)
Un altro punto di forte attrito tra la Chiesa cattolica, rappresentata dallo stato pontificio e gli USA è la questione economica. Infatti la dottrina sociale della Chiesa era in forte contraddizione rispetto ai valori del capitalismo liberista nordamerciano. Gli USA sono sempre stati considerati il paese del capitalismo selvaggio, ancora più dei paesi europei, che hanno saputo “ammorbidire” il modello nordamericano grazie ad uno stato sociale forte ed efficiente (cosiddetto modello “renano”, tipico della Germania e dei paesi europei continentali). Sulla forte critica cattolica del capitalismo selvaggio statunitense, possiamo ricordare ad esempio l’enciclica Quadragesimo Anno del 1931, che in occasione del quarantesimo anniversario della Rerum Novarum di Leone XIII e negli stessi anni della crisi del ’29, riportava quanto segue: “Il retto ordine dell’economia non può essere abbandonato alla libera concorrenza delle forze. Da questo capo, anzi, come da fonte avvelenata, sono arrivati tutti gli errori della scienza economica individualistica, la quale, dimenticando che l’economia ha un suo carattere sociale non meno che morale, ritenne che l’autorità pubblica la dovesse stimare e lasciare assolutamente libera a sé, come quella che nel mercato o libera concorrenza doveva trovare il suo principio direttivo, secondo cui si sarebbe diretta molto più perfettamente che per qualsiasi intelligenza creata. Ma la libera concorrenza, quantunque sia cosa certamente equa ed utile se continuata in limiti ben determinati, non può essere il timone dell’economia: il che è dimostrato anche troppo dall’esperienza.” (3)
Interessante poi una considerazione di Vulpitta sull’influenza della cultura americana in Italia e come ciò sia direttamente collegabile al ridimensionamento della morale cattolica nel “Bel Paese”. Egli scrive: “Per di più lo stile di vita americano, ed i valori che ne conseguono, sono penetrati anche in Italia e sono la causa principale del declino dei valori cristiani. Da questo punto di vista, anzi, l’americanismo rappresenta una minaccia più grave del comunismo. Infatti in paesi come la Polonia, che hanno sperimentato un lungo periodo di regime comunista, la Chiesa è ancora forte, mentre nell’Europa occidentale, che è stata invece esposta all’influenza dell’americanismo, ha registrato un grave regresso.” (4) Ovviamente il lavoro del prof. Vulpitta è volutamente parziale; egli in questo saggio vuole approfondire il tema complesso dell’antiamericanismo in Italia, sia in un’ottica cattolica, sia nell’area della destra, così come della sinistra. Per completare il discorso bisognerebbe ricordare anche quelle volte e quegli avvenimenti storici che hanno visto gli USA e la Chiesa cattolica collaborare in modo stretto, principalmente ai tempi della Guerra Fredda, sia in Italia che a livello internazionale. Contesti come l’America Latina sono un esempio lampante di ciò. Da che parte si schierò la Chiesa ai tempi del golpe di Pinochet in Cile contro il governo socialista? Non di certo contro gli interessi degli USA e dei golpisti. E ancora, ai tempi della presa dell’ambasciata USA in Iran nel ’79, il Papa invitò le chiese a suonare le campane in segno di protesta e in segno di speranza per il rilascio degli ostaggi americani in mano ai rivoluzionari iraniani. La guida della rivoluzione in Iran, l’imam Ruhollah Khomeini, rispose al Papa in modo netto chiedendogli sarcasticamente: perché non avete invitato a suonare le campane quando gli yankee massacravano i vietnamiti?
Detto ciò, è però innegabile una certa contrapposizione ideologica tra il cattolicesimo e il modello capitalista nordamericano, come emerge chiaramente anche dalla ricerca del prof. Vulpitta.
1- Romano Vulpitta, L’antiamericanismo in Italia. Una questione di identità nazionale, Roma, Edizioni Settimo Sigillo, 2012, pp. 66-67.
2- Ibidem, p. 68.
3- Ibidem, pp. 68-69.
4- Ibidem, p. 69.

giovedì 2 gennaio 2014

Democrazia o democrazie? Il pensiero democratico tra universalismo e relativismo

di Ali Reza Jalali
Seyyed-Ali-Khamenei1Senza ombra di dubbio, gli ultimi 100 anni della storia umana si sono caratterizzati, tra le altre cose, per una notevole presenza delle cosiddette “masse” in molti degli avvenimenti importanti. Prima dell’epoca contemporanea infatti, l’attività politica era prevalentemente una cosa per certe cerchie ristrette ed elitarie: solo gli aristocratici, almeno prima della Rivoluzione francese, si interessavano dei temi riguardanti la gestione della cosa pubblica. Dall’Ottocento in poi, ma ancora con maggiore veemenza, dal “secolo breve” in poi, i popoli e le masse hanno avuto un ruolo più dinamico e propositivo nei cambiamenti sociali e politici. Basterebbe fare l’esempio della presa della Bastiglia nel 1789, fenomeno questo molto esagerato da una certa storiografia marxista, che fu in realtà una sommossa molto limitata e poco partecipata dalla popolazione parigina. Invece le guerre sanguinose del Novecento in Europa, furono fatti che hanno coinvolto milioni di individui, cosa mai avvenuta prima nella storia umana. La maggiore presenza delle masse nella storia deriva da diversi fattori, ma la possibilità per un’importante fascia di popolazione di accedere alle scuole e potersi istruire, è la vera chiave di volta per comprendere il fenomeno da noi analizzato. In passato l’istruzione era cosa riservata solo ai ricchi, agli aristocratici e ai chierici. Dal Novecento in poi, sempre in più paesi del mondo gli individui legati sia alla borghesia, sia ai ceti proletari e del sottoproletariato, hanno potuto avere accesso alle scuole, fino addirittura all’istruzione superiore e all’università. E’ normale che un individuo istruito “pretende” di avere voce in capitolo per la vita sociale; anzi, gli individui istruiti, proprio per le conoscenze acquistite in diversi campi della scienza, possono essere più utili alla società rispetto ad altre persone. Ovviamente ciò non è necessariamente un bene (e nemmeno un male), ma la storia umana ha preso questa direzione, e voler muoversi contro la Storia, non è mai una cosa ragionevole e nemmeno semplice. La partecipazione delle masse nella vita politica è normalmente legata al concetto di “democrazia”. Ora, bisogna capire, vista la vastità del mondo e le varie culture, se questo fenomeno può essere esteso a tutto il globo oppure no. Vi sono diverse teorie al riguardo. In questa sede evidentemente vogliamo analizzare solo quelle che in qualche modo sono riconducibili ad una visione positiva per quello che riguarda l’ingerenza del popolo nelle decisioni politiche; vi sono infatti delle scuole di pensiero che rigettano la democrazia e la partecipazione delle masse alla vita pubblica. Ad esempio non analizzeremo le idee aristocratiche o puramente teocratiche, basate sulla responsabilità di un ceto dirigenziale rispetto all’intera società. Solo per fare un esempio, una teoria che potremmo definire “teocrazia pura”, rigetta il ruolo del popolo come forza decidente nelle dinamiche sociali e affida il compito del governo dello stato a Dio, tramite una ristretta cerchia di chierici (i rappresentanti di Dio in terra) o di un solo uomo (il Re legittimato da Dio, magari con poteri taumaturgici, come avveniva nel Medio Evo europeo). Per non parlare delle teorie razziali o classiste, che ritengono legittimo il governo delle razze o ceti sociali superiori rispetto ai popoli-etnie o ceti inferiori. Di fatto i governi coloniali europei in Asia o Africa aderivano a idee simili. Prenderemo in considerazione quindi solo le idee e le correnti di pensiero che in un modo o nell’altro, direttamente o indirettamente, credono che la democrazia e il ruolo propositivo delle masse nella gestione della cosa pubblica sia una cosa positiva. In generale possiamo dividere in due rami queste teorie: il filone universalista e quello relativista. Il primo si caratterizza per il fatto di vedere la “democrazia” come un sistema di valori universale, a grandi linee applicabile a tutto l’esistente senza distinzioni notevoli. Spesso gli intellettuali che aderiscono a questa teoria parlano di “democrazia liberale”, anche al di fuori dei territori che hanno visto la nascita e l’affermazione di tale modello politico e costituzionale, ovvero il Nord America e l’Europa occidentale. La seconda corrente invece ha un approccio diverso: gli intellettuali che aderiscono a questa teoria credono nel valore della democrazia, ma ritengono che possono esserci diverse forme di democrazia, anche con notevoli differenze da un paese all’altro, in base alla cultura, alla religione o ad altri fattori propri di ciascun popolo. Evidentemente sia gli universalisti che i relativisti si suddividono al proprio interno in diversi filoni, ma per semplicità e per evitare di dilungarci troppo, prenderemo in considerazione solo due intellettuali all’interno di ciascun orientamento.
Fukuyama, ovvero il trionfo globale della democrazia liberale
Lo studioso nordamericano Francis Fukuyama, è sicuramente tra i principali esponenti del filone riconducibile al pensiero dell’universalismo democratico. Nel suo celebre saggio “La fine della storia e l’ultimo uomo”, pubblicato in Italia nei primi anni ’90, che a sua volta riprendeva un articolo apparso per la prima volta sulla famosa rivista “The National Interest”, Fukuyama esponeva in modo magistrale la teoria in base alla quale il mondo, dopo la sconfitta dei principali avversari ideologici della democrazia liberale, ovvero nazismo e comunismo (era da poco caduto il Muro di Berlino), sarebbe stato inondato di principi democratici, in stretta connessione con gli ideali dell’economia di mercato e del liberalismo, sia in chiave economica che politica. In pratica la “democrazia occidentale” sarebbe diventata il modello per tutti i popoli e tutte le razze. Per fare un esempio di come la democrazia si stesse diffondendo nel mondo, Fukuyama riporta una tabella dove indica i paesi democratici nel globo, verso la fine degli anni ’80. In questa lista ritroviamo indistintamente paesi europei, americani, asiatici e africani, tutti ritenuti da Fukuyama aderenti al modello della democrazia liberale. Infatti, come detto prima, Fukuyama, con un chiaro approccio universalista, ritiene che la “democrazia” possa essere concepita in modo completo solo se associata al “liberalismo” (democrazia liberale appunto), ma non esclude una possibile scissione tra i due principi. Egli scrive: “Per quanto strettamente collegati, liberalismo e democrazia sono due concetti distinti. Il liberalismo politico può essere definito semplicemente come il riconoscimento giuridico di certi diritti o libertà individuali. Dei diritti fondamentali si possono dare definizioni quanto mai varie, ma noi ci limiteremo a quella contenuta nella classica opera sulla democrazia di Lord Bryce, che li limita a tre: diritti civili, cioè l’esenzione del controllo del cittadino per quanto riguarda la sua persona e la sua proprietà, diritti religiosi, cioè l’esenzione del controllo per quanto riguarda l’espressione di opinioni religiose e la pratica del culto, e quelli che lui chiama diritti politici, cioè l’esenzione del controllo in materie che non riguardano il benessere dell’intera comunità in maniera talmente chiara da rendere necessario il controllo stesso, ivi compreso il diritto fondamentale della libertà di stampa.” (1) Quindi secondo Fukuyama nel momento in cui uno stato rispetta i suddetti parametri riguardanti i diritti fondamentali in ambito politico e religioso, insieme all’economia di mercato e alla possibilità dei cittadini di partecipare alla gestione della cosa pubblica, direttamente o più normalmente tramite dei rappresentanti (democrazia indiretta o rappresentativa, tipica delle società complesse), abbiamo a che fare con una democrazia liberale, modello buono per ogni popolo o nazione, a prescindere dalle differenze culturali, religiose o etniche. Fukuyama però ammette implicitamente, e qui lo studioso forse si contraddice, la possibilità che esistano modelli democratici “sui generis”, non omologabili nell’alveo della democrazia così come lui la intende. Egli infatti scrive: “Di solito liberalismo e democrazia procedono insieme, ma in teoria possono essere anche separati. E’ infatti possibile che un paese sia liberale, senza essere particolarmente democratico. Tale è stata nel secolo XVIII l’Inghilterra, dove una ristretta elite sociale godeva di una lunga lista di diritti, tra cui quello di voto, che venivano invece negati agli altri. E’ anche possibile che un paese sia democratico senza essere liberale, cioè senza difendere i diritti dei singoli e delle minoranze. E’ esattamente il caso della Repubblica islamica dell’Iran, dove si sono avute regolari elezioni, che sono state anche abbastanza corrette in base agli standard del Terzo Mondo, e che hanno reso il paese più democratico di quanto non lo sia stato al tempo dello scià.” (2) La teoria di Fukuyama quindi, pur essendo chiaramente universalista, e come tutti gli universalismi, sia laici (democrazia liberale e marxismo soprattutto), sia religiosi (come il cristianesimo o l’islam), tende a vedere un “fine” per la storia, con una chiara impronta riconducibile alla funzione teleologica della storia, ovvero al fatto che per forza di cose, l’esistenza umana deve avere uno scopo, così come la vita sociale dell’individuo, e che questa visione (a prescidnere che si tratti di democrazia liberale, marxismo, cristianesimo o islam) tenda al trionfo definitivo su tutti gli avversari, implicitamente ritiene possibile altre varianti di democrazia, contraddicendosi.
Ali Khamenei: la democrazia religiosa come una delle possibili forme di democrazia
A chi non è pratico di scuole politiche e giuridiche nell’alveo del mondo islamico, potrebbe fare una certa impressione il richiamo a un personaggio come l’Ayatollah Ali Khamenei, guida dello stato iraniano, come rappresentante di una visione relativista della democrazia, in quanto, con un approccio superficiale, si potrebbe pensare che il capo di stato di una nazione definita “islamica”, nel senso istituzionale del termine, sia in palese contraddizione con la democrazia, in quanto questo modello si legittima grazie alla volontà del popolo, mentre nell’islam, tutto l’esistente dipende da Dio. L’idea che il modello iraniano imperante, sia in palese contraddizione con la democrazia, a prescindere poi da quello che scrive Fukuyama sull’Iran, è in parte errata. Si, è vero, la costituzione iraniana prevede la legittimazione divina dell’ordine statuale, ma poi, quando si tratta di scnedere nel concreto, nella gestione della cosa pubblica, il modello iraniano è approssimabile alle democrazie, anche nel senso universalista presentato dallo studioso nordamericano. La costituzione iraniana, così come redatta dai padri costituenti e così come interpretata dalla stessa guida, Ali Khamenei, non prevede forse gli istituti “democratici” del parlamento o dell’esecutivo? L’idea di vedere in netta contrapposizione il modello iraniano, ovvero la “democrazia religiosa”, così come è stata definita dall’Ayatollah Khamenei (mardomsalari-e dini, in persiano), deriva da alcuni malintesi, ma anche dal fatto che questo modello è stato, soprattutto in Italia, preso in considerazione in modo positivo da certe aree culturali con una sensibilità anti-democratica, dai cattolici tradizionalisti a certe aree dell’estrema destra, che hanno visto, secondo chi scrive, in parte a torto, nell’Iran post-rivoluzionario una versione aggiornata al XX secolo dello stato papista o del fascismo. Sicuramente ci sono dei punti in comune tra la “democrazia religiosa” e certe idee della destra culturale italiana, ma similitudini si possono trovare in qualsiasi contesto politico. Le idee sulla gestione dello stato di Hitler o Stalin, erano per certi aspetti simili, ma ciò non vuol dire evidentemtne che il nazionalsocialsmo e lo stalinismo siano la stessa cosa. La democrazia d’altro canto, nel pensiero di Khamenei, può avere diverse varianti, non necessariamente si deve omologare al modello liberale o occidentale. Può quindi esserci una democrazia, ma alternativa, ad esempio basata su una visione religiosa della società e non laica. Come potrebbero esistere anche altre forme di democrazia, non riconducibili al modello liberale, e nemmeno a quello islamico-religioso. Secondo il pensiero dell’Ayatollah Khamenei infatti, la democrazia è quel modello che permette ai propri cittadini di partecipare a libere eleziono concorrenziali, ma a parte ciò, ogni popolo, ogni nazione, in base alla propia cultura o religione, può scegliersi il modello che più gli si addice, senza per forza dover cadere in un modello autoritario. Il vantaggio del modello relativista della democrazia rispetto a quello universalista, è quello di accettare modelli “diversi”, senza per forza dover imporre un sistema al di fuori dei propri confini. Idee come quelle di Fukuyama, sono infatti alla base delle teorie neoconservatrici, che hanno portato all’utopia dell’esportazione della democrazia e al conflitto iracheno del 2003, guerra questa mai conclusa relamente che porta ogni anno a sanguinosi scontri in Iraq, per non dire della catastrofica destabilizzazione e radicalizzazione di tutto il mondo islamico. Un approccio relativista alla democrazia è l’unica soluzione plausibile per un mondo di pace e pacata convivenza tra popoli con culture diverse, a prescindere dalla variante di democrazia che si vuole applicare.
1- F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992, pp. 63-64. La citazione di James Bryce, deriva dal testo Modern Democracies, New York, MacMillan, 1931, pp. 53-54.
2- Ibidem