domenica 20 aprile 2014

L’esecuzione di Bijan Jazani, attivista della sinistra iraniana negli anni ‘70


L’esecuzione di Bijan Jazani, attivista della sinistra iraniana negli anni ‘70. Dalla profezia della vittoria della rivoluzione islamica alla condanna dei “marxisti americani”

di Abdolreza Davari*
 
Bijan Jazani, il giorno del suo matrimonio
 

 

Il 20 aprile del 1975 venivano giustiziati in Iran 9 attivisti e intellettuali di sinistra, per via della loro fervente opposizione al regime di Mohammad Reza Pahlavi. Tra di essi spiccava la figura di Bijan Jazani, l’unico studioso ad aver previsto già negli anni ’60 la vittoria della rivoluzione guidata dall’imam Khomeini. In un libro scritto verso la metà degli anni ’60 Jazani approfondendo e analizzando in modo accurato la rivolta del ’63, quella che poi fu all’origine dell’esilio forzato della guida religiosa dal paese persiano, arrivò a teorizzare già da allora la vittoria di quel movimento di ispirazione islamica. Jazani disse: “Considerando il suo background e il fatto che Khomeini gode di molto seguito tra le masse, soprattutto tra gli imprenditori e i piccoli borghesi (1), e partendo dal presupposto che egli gode di una certa libertà di fare propaganda (2), penso che ha molte possibilità di successo.”

Nel suo libro Jazani condanna poi un gruppo di intellettuali, etichettandoli come “marxisti americani” (3), in quanto questi militanti di sinistra teorizzavano il sostengo alla borghesia compradora iraniana legata agli Stati Uniti, quasi in funzione “disfattista”. Essi infatti ritenevano che il sostegno a questa borghesia avrebbe accelerato il passaggio della società iraniana dal feudalesimo al capitalismo, di fatto avvicinando la possibilità di istaurare, in un lasso di tempo breve, un modello socialista (4).

Bijan Jazani nacque nel 1937 in una famiglia fortemente politicizzata. I suoi parenti erano attivisti comunisti che avranno un ruolo importante nel Partito del Popolo (Hezbe Tudeh), il principale partito marxista iraniano. I suoi genitori erano originari della regione di Isfahan, nell’Iran centrale. Hossein Jazani, il padre di Bijan, militò nel Tudeh, ma poi aderì al progetto “democratico” dell’Azerbaijan iraniano, ovvero il tentativo, poi fallito, di istaurare nel nord-ovest dell’Iran una repubblica socialista autonoma. Dopo il fallimento dell’iniziativa si rifugiò oltre il confine, nell’Azerbaijan facente parte dell’Unione Sovietica, in concomitanza con la fine della Seconda Guerra Mondiale. Fece ritorno in Iran negli anni ’60. Il piccolo Bijan da subito decise di seguire le orme del padre e fin da adolescente entrò nei giovani del Tudeh. Verso la fine degli anni ’40 le possibilità per il Tudeh di organizzare una opposizione democratica al governo di Mohammad Reza Pahlavi diminuirono drasticamente in quanto ci fu un attentato fallito ai danni del sovrano. Il governo decise allora di dichiarare fuori legge il partito comunista, sospettato di essere tra gli artefici del tentato omicidio. La militanza di Jazani allora entrò in una fase di clandestinità, soprattutto negli ambienti studenteschi. Negli anni del governo nazionalista di Mosaddeq e dopo il golpe del 1953 fu incarcerato per le sue attività illegali contro lo Shah, ma fu liberato subito per la sua giovane età, la fedina penale pulita e per l’intercessione di alcuni ufficiali vicini al partito comunista Tudeh.

Poco dopo però fu nuovamente incarcerato, sta volta per sei mesi. Nella primavera del 1956 tornò a occuparsi attivamente di politica con la pubblicazione di un giornale clandestino. Il gruppo fu scoperto dalle autorità e Jazani fu nuovamente imprigionato. Tra il 1959 e il 1960, nuovamente libero, aderì al “secondo” Fronte Nazionale (5), dove iniziò una seria e duratura militanza. Nel ’63 però il movimento al quale aveva aderito fu vittima di una nuova ondata di arresti e intimidazioni, per cui Jazani fu costretto a uscire dalla piattaforma del nuovo Fronte Nazionale per aderire a un progetto giornalistico, ovvero un piccolo gruppo di intellettuali che diede vita al “Messaggio dello Studente” (Payame Daneshju) (6), un giornale che riuniva alcune anime del fronte degli oppositori al regime. In poco tempo il giornale divenne il punto di riferimento per alcuni dei più brillanti giovani intellettuali e militanti che si opponevano allo Shah. Il gruppo era eterogeneo dal punto di vista ideologico e aveva al proprio interno diverse anime. Nonostante ciò non sorsero particolari dissidi tra i dirigenti e i militanti. Il giornale, di poche pagine, arrivò a stampare 500 copie al giorno. Sempre nella prima metà degli anni ’60 Jazani fu nuovamente imprigionato e in quegli stessi anni conseguì la laurea in filosofia col massimo dei voti. Intanto il gruppo al quale aveva aderito si sviluppava e si decise di intraprendere anche la lotta armata. Le vicende delle sanguinose rivolte anti-regime della prima metà degli anni ’60 intanto, ebbero un risultato nefasto per gli eredi del Fronte Nazionale. Infatti ormai era chiaro alla base giovanile che i dirigenti non cercavano veramente una svolta rivoluzionaria (7), ma solo un compromesso col regime per alcune riforme marginali agli occhi dei giovani. Vi furono molte scissioni e Jazani riuscì a mettere insieme non pochi delusi del Fronte, quelli con idee più radicali, in una entità chiamata convenzionalmente “terzo” Fronte Nazionale (1965-66). Il progetto fu subito stroncato dalle autorità che arrestarono nuovamente Jazani; sta volta dovette farsi nove mesi di carcere, insieme ad altri membri del nuovo Fronte.  

Nella seconda metà degli anni ’60 il gruppo di Jazani, ovvero quegli intellettuali che lo avevano seguito dalle precedenti esperienze, dal Tudeh fino alle varie fasi del Fronte Nazionale, passando per il giornale del “Messaggio dello Studente”, decise di seguire una via più marcatamente legata alla lotta armata. In una delle operazioni attraverso le quali si cercava un rifornimento di armi, il gruppo fu scoperto e questa volta i militanti finirono dinnanzi a un tribunale speciale anti-terrorismo. Inizialmente Jazani e i suoi collaboratori rischiarono la pena di morte, ma alla fine furono condannati a 15 anni di reclusione.

Proprio in quel periodo al gruppo guidato da Jazani si unirono altri gruppi armati organizzati, dando vita ai “Combattenti al Servizio del Popolo Iraniano” (Chirikhaye Fadaiye Khalqe Iran), più comunemente conosciuti come i Fedayin del Popolo (8), noto gruppo armato marxista iraniano. L’azione più eclatante, che di fatto diede vita alla fase della lotta armata su grande scala, fu quella dell’assalto a una caserma militare nel 1971. Dopo questo episodio – Jazani si trovava in carcere – le autorità intensificarono la “caccia” ai Fedayin. Lo stesso Jazani fu trasferito in esilio presso Qom. Bijan Jazani assunse sempre di più le vesti dell’ideologo del gruppo, riuscendo anche a far uscire dal carcere alcuni suoi scritti. Ma alla fine, dopo duri anni di carcere e torture, fu giustiziato dal regime nella primavera del 1975, insieme ad altri membri dei Fedayin. Tra i giustiziati vi furono in tutto 7 membri dei Fedayin, compreso Jazani, e 2 membri dell’”Organizzazione dei Combattenti del Popolo”, comunemente conosciuti come Mojahedine Khalq (9). I giornali del giorno dopo intitolarono “Detenuti uccisi mentre tentavano la fuga”. La verità era ben altra, e il tutto venne a galla solo con la caduta dei Pahlavi e la vittoria rivoluzionaria del febbraio del 1979. Oggi le tombe dei giustiziati di quel giorno primaverile di circa 40 anni fa si trovano a sud di Tehran, nel settore 33 del gigantesco cimitero di “Beheshte Zahra”.  

Note

1-      Presumibilmente Jazani si riferisce ai “bazari”, i commercianti iraniani che ebbero un ruolo importante nel sostegno alla rivoluzione islamica del ’79.

2-      L’attenzione del regime era concentrata soprattutto sui gruppi classici dell’opposizione, ovvero marxisti e nazionalisti. Paradossalmente poi, l’esilio dell’imam Khomeini fu un vantaggio, perché in Iran il leader religioso avrebbe avuto meno spazio di manovra. Inoltre bisogna sottolineare che i servizi dello Shah in una fase limitata, sostennero l’attivismo di alcuni gruppi islamici per togliere consenso ai marxisti, visti dal regime, evidentemente a torto, come la principale minaccia al governo monarchico filo-occidentale.

3-      Interessante notare come il gruppo condannato da Jazani era composto da personaggio che poi saranno dirigenti nella Repubblica Islamica. Ad esempio spicca la figura di Behzad Nabavi, che dopo il ’79 sarà una figura di spicco della politica iraniana. Egli fu tra i fondatori del Partito dei Mojahedin della Rivoluzione Islamica – da non confondere con il MKO – movimento della sinistra islamica. Nabavi sarà ministro del governo Musavi-Khamenei nella seconda metà degli anni ’80. Successivamente diverrà uno dei leader del movimento riformista. Sarà arrestato nel 2009 per i disordini post-elettorali e il suo attivismo, giudicato dalle autorità illegale, in favore del candidato riformatore Musavi, lo stesso di cui era stato ministro in passato. Nabavi è tra i critici della Guida Khamenei e dei conservatori radicali in generale.

4-      Idea questa diffusa in non pochi ambienti marxisti in giro per il mondo; peccato però che le rivoluzioni marxiste si siano avverate sempre in contesti non industrializzati (Russia zarista, Cina, Cuba ecc.). Di fatto il passaggio, come ci insegna ad esempio anche la storia cinese, senza dimenticare quella russa, è stato inverso da ciò che aveva in mente Marx. Feudalesimo-Socialismo-Capitalismo, e non Feudalesimo-Capitalismo-Socialismo.

5-      Il “primo” Fronte Nazionale fu smembrato dopo il 1953, con la caduta di Mosaddeq. La caratteristica saliente di questo gruppo, non un vero e proprio partito, ma una grande coalizione, è sempre stato quello di avere al proprio interno molte anime ideologiche diverse.

6-      Facevano parte di questo gruppo persone che poi sarebbero divenute famose nella Repubblica Islamica; oltre all’onnipresente Behzad Nabavi, c’era anche Hassan Habibi, che sarà per lunghi anni, quasi per tutti gli anni ’90, vicepresidente dell’Iran.

7-      Ciò emergerà ancora con più chiarezza nel 1979, quando uno dei capi del Fronte Nazionale, o di ciò che rimaneva di questa formazione, Bakhtiar, accettò l’incarico di primo ministro, l’ultima carta giocata dallo Shah per riportare l’ordine nel paese. Quel gesto costò caro alla reputazione di Bakhtiar e del Fronte Nazionale. Khomeini sottolineò come in realtà ciò dimostrava che i capi del Fronte si battevano non per la rivoluzione, ma solo per le poltrone.

8-      Da non confondere col gruppo dei Fedayin attivo negli anni ’40-’50, di matrice islamica. I Fedayin marxisti rimasero in azione anche dopo la rivoluzione del ’79, in quanto secondo loro il processo rivoluzionario non poteva giungere a conclusione in modo ortodosso senza l’istaurazione della dittatura del proletariato. Un governo retto di fatto dalle autorità del clero, sempre secondo i Fedayin, non poteva avere nulla di rivoluzionario. Gli scontri tra Fedayin e le forze di sicurezza del governo islamico si intensificarono soprattutto nei primi anni ’80, in alcune regioni, come nel Kurdistan. Oggi il gruppo si è di fatto estinto.   

9-      Quella vicenda fu importante anche per le sorti dei Mojahedin. Dopo l’eliminazione dei due militanti, rimasero al potere nel gruppo personaggi come Masud Rajavi, “scampato” all’epurazione. Secondo alcuni quell’episodio segnò l’inizio della collaborazione tra il gruppo e settori del regime monarchico, in cambio della immunità.

*Abdolreza Davari è un giornalista e professore universitario, esperto di politica e economia. E’ stato consigliere del governo di Mahmoud Ahmadinejad, con incarichi di prestigio, come quello di direttore del centro di ricerca strategica del Ministero dell’Interno. Il testo è tratto da un suo post su Facebook.

Traduzione e note a cura di Ali Reza Jalali

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