venerdì 29 novembre 2013

sabato 23 novembre 2013

Nucleare sì, ma solo per uso pacifico. Intervista ad Ali Reza Jalali

Nucleare sì, ma solo per uso pacifico. Intervista ad Ali Reza Jalali




Nucleare sì, ma solo per uso pacifico

Iran: in dieci anni di negoziati, mai così vicini all’intesa


Di seguito riportiamo l'intervista ad Ali Reza Jalali a cura di Romina Gobbo per "La Voce dei Berici", settimanale di Vicenza   


I negoziati a Ginevra sono in corso. Calmate le “scintille diplomatiche” tra il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, e il segretario di Stato americano, John Kerry, i colloqui sul nucleare procedono. Tuttavia, sia da parte americana che iraniana c’è la consapevolezza che per raggiungere l’intesa sarà necessario un lungo percorso. Ma dagli Usa i segnali positivi non mancano, purché il nucleare iraniano non venga utilizzato in campo militare. Sullo sfondo, resta la Francia, principale oppositore al colloquio dello scorso 7 novembre. “Perché servono maggiori garanzie che un “misero’ stop temporaneo all’arricchimento dell’uranio”, sostiene Parigi. “Per suoi meri interessi economici”, le fa eco Teheran.

La questione nucleare, il "rift" Israele-Iran, la crisi in Siria

«La vera questione - spiega l’iraniano Ali Reza Jalali, ricercatore e saggista, esperto di Medio Oriente - non è tanto il nucleare, ma l’egemonia dell’Iran nel grande Medio Oriente mondiale, dal Levante al Golfo, fino all’Asia centrale. L’impressione è che la minaccia della bomba atomica, più volte usata dall’ex presidente Ahmadinejad, servisse più sul piano psicologico, e che dietro non ci fosse una vera idea di distruzione. Mi fa pensare alla guerra fredda, con due schieramenti che si fronteggiano con sguardo minaccioso, ma senza reale intenzione di una guerra vera, sapendo entrambi che sarebbe la distruzione totale per tutti». «Nello scorso round negoziale il governo israeliano ha avuto un approccio molto intransigente e le pressioni per fermare l’accordo continuano; stesso atteggiamento anche da parte dell’Arabia Saudita. Il timore è che l’Occidente, avvicinandosi all’Iran, possa ridimensionare la sua relazione con altri partner dell’area, come appunto i due appena citati. Io credo che la preoccupazione israeliana sia eccessiva. Loro insistono sul problema della sicurezza, ma l’ingente presenza americana ai confini, è già di per sé una garanzia importante. Si tratta di istanze esagerate, ma sappiamo che per Netanyahu, l’Iran è sempre stato il grande nemico». «Da qualche decennio a questa parte, i due estremi nella contesa mediorientale sono Israele e Iran. ognuno ha i propri alleati e amici. Da un lato, un Iran nucleare potrebbe essere un problema per Israele, ma anche nella situazione attuale, con la Siria governata da Assad, con il Libano meridionale in mano a Hezbollah, il problema per Israele esiste. Il timore è che, con l’alleggerimento delle sanzioni, possa aumentare l’influenza dell’Iran in altri Paesi, in Iraq, per esempio. Tanto più che, siccome in Siria non è andata come si pensava, anche la Turchia ha cambiato approccio, si è fatta più moderata e ha cominciato a parlare di soluzione diplomatica, non più di guerra». «È un cambiamento di tattica perché quella di Ahmadinejad non ha portato granché, anzi, ha portato le sanzioni; mentre per quanto riguarda politiche generali di lungo periodo, non penso che ci saranno grandi cambiamenti strutturali. L’approccio del presidente su tematiche spinose, il riconoscimento dell’olocausto, gli auguri per il capodanno ebraico... denotano semplicemente un linguaggio più diplomatico, più improntato alla real politik. La situazione economica iraniana è complicata, con un’inflazione su dati annui che registra una crescita del 40 per cento. È urgente trovare un modo per alleggerire le sanzioni».


Sugli scontri confessionali in Medio Oriente 

«La conseguenza più nefasta ella cosiddetta primavera araba è stata l’emergere in modo più veemente delle istanze etnico-confessionali in Medio Oriente. Nella crisi siriana questo è ben chiaro, con due assi ben delineati che si contrappongono: uno sciita - Iran, Hezbollah, ma anche parte dell’Iraq - a sostegno del governo siriano; quello sunnita, legato a Turchia, Arabia Saudita, Fratelli Musulmani, e anche con infiltrazioni di al-Qaeda, che sostengono i ribelli. Questo scontro inter-confessionale ha avuto conseguenze molto nefaste e ha creato molto odio tra le due comunità. È una situazione che danneggia tutti. L’Iraq sta vivendo i momenti più drammatici dal ritiro degli americani (l’ultimo episodio terribile, in ordine di tempo, è la bomba esplosa a Beirut, nei pressi dell’ambasciata iraniana, martedì 19 novembre). Uno scontro che si è sentito anche in contesti fuori dal mondo arabo, altre regioni del mondo islamico, come il Pakistan». «Questo scontro storicamente c’è sempre stato, ma negli ultimi due, tre anni, è diventato molto pesante. Non si era mi vista una situazione così tesa tra le due comunità negli ultimi vent’anni. Gli scontri del passato avevano altre linee di demarcazione (nella crisi del 2006 in Libano, c’erano, da una parte, Hezbollah, ma dall’altra Isralele, così pure a Gaza, Hamas e Israele). La prima seria guerra degli ultimi anni fra sciiti e sunniti, forse è stata in Iraq all’indomani della caduta di Saddam, ma anche lì nulla a che fare con quanto sta accadendo in Siria, dove i ribelli hanno potuto reclutare manovalanza in tutto il mondo sunnita, e, dall’altra parte, a sostegno del regime di Assad, sono arrivate milizie internazionali sciite. Un conflitto regionale senza precedenti, ma per interposta persona, perché dietro gli attori ufficiali ci stanno le potenze regionali. Io penso che, se queste stesse potenze troveranno un accordo, le fiamme del conflitto inter-confessionale potranno ridimensionarsi».

Romina Gobbo, "La Voce dei Berici"

lunedì 18 novembre 2013

lunedì 4 novembre 2013

L’Iran grida ancora: “morte all’America!”



Ali Reza Jalali

Una folla oceanica si è oggi radunata davanti all’ex ambasciata americana a Teheran per commemorare il 34/o anniversario della presa della rappresentanza diplomatica statunitense. Lo slogan più urlato dalle masse è stato “morte all’America, morte a Israele”. Dominavano stamane nella capitale iraniana le bandiere con scritte inneggianti alla fine dell’egemonia imperialista nordamericana nel mondo. Infatti nel novembre del 1979, in una condizione sociale caotica come quella post-rivoluzionaria, i vari gruppi politici cercavano di trovare il proprio spazio, spesso usando anche la forza e ricorrendo al terrorismo, per eliminare i concorrenti. Inoltre, le mire egemoniche degli Stati Uniti, portavano l’allora governo di Carter ha tentare di rientrare in Iran dopo la caduta di un regime (quello dello Shah) da loro sostenuto fino all’ultimo istante. I gruppi rivoluzionari ovviamente, e lo stesso imam Khomeini, guida del processo rivoluzionario iraniano, erano consapevoli che l’America stava organizzando la reazione, basata principalmente su alcuni personaggi legati al fronte rivoluzionario stesso.
Non pochi furono i tentativi di destabilizzare dall’interno la neonata Repubblica islamica, proclamata tramite referendum nella primavera del 1979. Allora era in carica, per volere dell’imam Khomeini, il governo provvisorio di Bazargan, che non era un intransigente del movimento rivoluzionario, e addirittura non disdegnava che l’Iran post-rivoluzionario potesse rimanere in amicizia con gli americani, questione che emerse in un incontro, nemmeno tanto segreto, tra Bazargan e alcuni esponenti dell’amministrazione nordamericana in un viaggio all’estero dello stesso premier provvisorio. Vedendo la situazione, caratterizzata da un governo di transizione che rischiava di vanificare lo sforzo rivoluzionario per creare un Iran indipendente, i militanti islamici, principalmente quelli riconducibili al “Tahkime Vahdat”, di cui faceva parte anche il giovane Mahmoud Ahmadinejad, decisero di forzare la mano e di agire, prima che la Rivoluzione venisse tradita, essendo uno dei principi fondamentali della Repubblica islamica, l’indipendenza dalle cosiddette superpotenze. Una delle basi privilegiate che gli americani usavano per la destabilizzazione della Rivoluzione islamica era indubbiamente l’ambasciata statunitense a Tehran. Subito dopo il trionfo della Rivoluzione, i militanti chiusero unilateralmente la rappresentanza diplomatica di Tel Aviv, che era attiva in Iran da diversi anni, essendo lo Shah un alleato di Israele. Nell’autunno del 1979 quindi, i rivoluzionari decisero di dare un altro colpo alle mire straniere in Iran, sia per far capire al governo americano che non erano disposti ad abbandonare gli ideali rivoluzionari, sia per far comprendere alla compagine di Bazargan che la Rivoluzione islamica ha caratteristiche decisamente anticolonialiste, e un approccio superficiale porterebbe l’Iran al punto di partenza. Infatti i simpatizzanti del “Tahkime Vahdat”, assaltarono l’ambasciata americana, e presero in ostaggio gli addetti del personale; tra i giovani rivoluzionari iraniani, vi era anche, come abbiamo detto, Mahmoud Ahmadinejad. Quell’azione, che poi l’imam Khomeini, per sottolinearne l’importanza definì la “seconda Rivoluzione”, pose le basi per la rottura dei rapporti diplomatici tra USA e Iran e costrinse alle dimissioni il governo provvisorio di Bazargan, ormai incapace di tenere sotto controllo l’ala più antimperialista del movimento rivoluzionario.
La crisi degli ostaggi come sappiamo, portò gli americani ad intraprendere una goffa reazione culminata nell’umiliante vicenda del fallimento delle operazioni militari che dovevano liberare gli ostaggi e l’ambasciata americana a Tehran, che i rivoluzionari ribattezzarono come il “covo delle spie”. In una tempesta di sabbia nel deserto dell’Iran centrale infatti, gli elicotteri americani rimasero intrappolati e senza che le autorità iraniane muovessero un dito, la missione fallì. I rivoluzionari islamici videro in ciò un miracolo divino, dimostrazione, dal loro punto di vista, della giustezza delle loro istanze antiamericane. Oggi come allora la nazione iraniana, nonostante le difficoltà, e nonostante la voglia di “americanizzazione” di una parte della borghesia e della classe politica di Teheran, non accetta la dominazione coloniale, e auspica non solo la liberazione del Medio Oriente, ma quella del mondo, dall’ingiustizia perpetrata dal capitalismo selvaggio internazionale, guidato dal governo gurrafondaio di Washington.

Tratto dal sito di "Stato e Potenza" 

domenica 3 novembre 2013

Alireza Jalali all’IRIB: relazioni Iran-Usa, cambia il linguaggio e la tattica ma non le politiche


Alireza Jalali all’IRIB: relazioni Iran-Usa, cambia il linguaggio e la tattica ma non le politiche di base (AUDIO)


IRIB ITALIA 
Alireza Jalali all’IRIB: relazioni Iran-Usa, cambia il linguaggio e la tattica ma non le politiche di base (AUDIO)
TEHERAN - Il 4 novembre, in Iran si celebra la presa dell'ex ambasciata Usa a Teheran, denominata 'il covo delle spie', nel 1979, all'indomani della vittoria della rivoluzione islamica e la caduta del regime monarchico.
Alireza Jalili, redattore del periodico 'Stato e Potenza' e analista del Medio Oriente, rispondendo alla domanda: “Morte all’America rimane sempre lo slogan principale del popolo iraniano oppure con la elezione del presidente Rohani questo sara’ modificato, ha detto: Penso che un cambiamento nelle relazioni Iran- Usa ci sara’, ma sara’ un cambiamento nel linguaggio e al Massimo nella tattica, mentre le linee principali della diplomazia restano quelle annunciate dalla guida suprema Ayatollah Khamenei….

http://italian.irib.ir/analisi/interviste/item/134012

sabato 2 novembre 2013

La dichiarazione di Balfour, wahabismo, "balcanizzazione" del mondo islamico



di Ali Reza Jalali 


File:Balfour declaration unmarked.jpg


Le potenze occidentali hanno sempre guardato con attenzione ai propri confini orientali e meridionali, per via dell’interesse strategico finalizzato al controllo dei traffici commerciali tra Europa e Asia. Indubbiamente, la collocazione dei Paesi islamici, prevalentemente inseriti tra l’Occidente e l’Estremo Oriente, ha fatto attrarre l’attenzione dei colonialisti su quei territori, compresi a grandi linee tra il Bosforo e il Subcontinente indiano. Il controllo di questa macroarea, voleva dire per gli europei, controllare i traffici commerciali tra l’Occidente e l’Oriente. In questo senso vanno interpretate le varie avventure coloniali di inglesi e francesi nella regione del Vicino Oriente e l’espansionismo verso il Mediterraneo orientale, il Canale di Suez, il Mar Rosso, il Golfo Persico e l’Oceano Indiano, quanto meno nella sua parte settentrionale. Ad esempio l’avventura napoleonica in Egitto alla fine del Settecento, era finalizzata all’egemonia sulla zona strategica a ridosso del Mar Rosso, nel tentativo di disturbare l’azione degli inglesi in quella regione. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento però, la regione del Vicino Oriente fu scossa dalla scoperta del petrolio, che da allora fino ad oggi, e probabilmente anche lungo il XXI secolo, è stato, è e sarà il motore dell’economia mondiale (senza dimenticare il ruolo fondamentale che sta assumendo sempre di più il gas naturale, un’altra strategica risorsa dei Paesi della regione). Da allora le potenze coloniali, in primis Francia e Gran Bretagna, hanno cercato l’egemonia nel mondo musulmano, puntando e investendo molto nel vecchio principio del colonialismo, basato sull’incentivazione delle guerre fratricide islamiche, finalizzate all’indebolimento reciproco dei Paesi della regione. Evidentemente è più facile dominare e influenzare un Paese debole che uno forte, e un Paese sempre coinvolto in guerre è molto più vulnerabile di uno che vive nella stabilità e nella pace. Il primo passo per la deflagrazione della regione, finalizzato al controllo dei Paesi del mondo islamico, per facilitare l’approvvigionamento energetico a basso costo della Francia e della Gran Bretagna, fu il celebre accordo segreto Sykes-Pikot del 1916, dal nome dei ministri inglese e francese, che stipularono il patto. Grazie ad esso, i territori dell’impero ottomano, all’indomani della fine della Grande Guerra, furono divisi e un grande Stato si trasformò in una quantità di Paesi molto più piccoli e più deboli. Bisogna notare che questo progetto, che diede vita alla Turchia, alla Siria, al Libano, all’Iraq e ad altri Paesi, fu possibile grazie ad un piano diabolico di guerra fratricida tra popolazioni musulmane, in nome di diverse confessioni e soprattutto sfruttando la rivalità tra turchi e arabi. A questi ultimi era stato promesso un grande Stato panarabo, che evidentemente non nacque mai. Infatti, una volta sconfitti gli ottomani, gli inglesi e i francesi, divisero i territori arabi dell’ormai ex impero in diversi Stati, con confini arbitrari, con il proposito di creare ulteriori dissidi tra i popoli della regione. Per cui fu creato ad esempio un Iraq ingestibile, basato sulla forzata convivenza tra arabi, curdi, turcomanni ecc. con diverse religioni e confessioni (musulmani sciiti, musulmani sunniti, cristiani caldei, cristiani assiri ecc.), per porre le basi di nuovi attriti e nuovi scontri. 



Insomma, da allora in avanti il Vicino Oriente sarebbe stato il teatro di guerre civili fomentate da potenze straniere interessate al dominio di una delle più ricche regioni al mondo, il controllo della quale poteva significare (e lo stesso vale ancora oggi) il dominio delle dinamiche globali e dell’economia di diversi Paesi. Un altro punto fondamentale del dominio coloniale occidentale nel mondo islamico è l’aiuto notevole che gli inglesi hanno dato alla corrente “wahabita” nella Penisola araba, in funzione anti-ottomana. Il wahabismo è un movimento massimalista nato in Arabia nel XVIII secolo, che secondo i dettami del fondatore di questa ideologia estremista, Muhammad Ibn ‘Abd al-Wahhab, morto nel 1792, sarebbe incentrato in una sorta di ritorno alla purezza primordiale della comunità islamica, contro alcune forme “eretiche”, almeno secondo i fautori di questa scuola di pensiero, come il culto dei luoghi santi, usanza diffusa in molte zone del mondo islamico, tra gli sciiti, ma anche tra i sunniti (soprattutto nel sufismo) (16). Tra le malefatte di questo gruppo massimalista possiamo citare, a conferma della indole anti-islamica di tale setta, la devastazione della tomba del profeta Muhammad nel 1805. Più volte gli ottomani cercarono di reprimere la furia reazionari wahabita: ad esempio tra il 1811 e il 1818 vi furono diverse spedizioni per sconfiggere i wahabiti nella Penisola araba, ma i rimedi non furono efficaci. Alla fine questo movimento reazionario e settario, col supporto inglese, riuscì a creare uno Stato autonomo nell’Arabia centrale. Il culmine del potere wahabita arrivò nei primi anni del Novecento quando essi conquistarono La Meccca, e crearono un Emirato che andava dall’Arabia centrale al Mar Rosso. La dinastia Al Saud quindi, riuscì insieme ai colonialisti inglesi a emancipare la Penisola araba dal dominio ottomano e a creare negli anni ’20 l’Arabia Saudita. La diffusione del pensiero rigorista wahabita e l’aiuto che il colonialismo occidentale ha fornito a questa setta per distruggere l’integrità territoriale dell’impero ottomano è da collegarsi al più problematico degli avvenimenti del mondo islamico nel XX secolo, ovvero alla creazione del cosiddetto “Stato di Israele”. Non a caso il progetto Sykes-Picot, per la spartizione e la deflagrazione dei territori arabi in mano agli ottomani, è del 1916 e la famosa Dichiarazione di Balfour, riguardante la futura nascita di un “focolare nazionale” (“National Home”) per gli ebrei in Palestina è del 1917. In pratica, senza la disgregazione dell’impero ottomano, fomentato e pianificato dagli occidentali ed eseguito sul campo da alcuni gruppi estremisti, come appunto la setta wahabita, nemica dei sunniti ottomani come degli sciiti, che attraverso una massiccia mobilitazione nel mondo arabo, prevalentemente nello “Hijaz” (regione della Penisola araba, a ridosso del Mar Rosso), portarono a compimento i piani del colonialismo. 



Il risultato fu che grazie a questi sforzi, non solo gli arabi non ottennero un grande Stato panarabo, non solo furono divisi in alcuni piccoli e deboli Stati, ma gli stessi arabi palestinesi furono cacciati dalla loro terra, e rimpiazzati dagli ebrei emigrati da diverse zone del mondo. Il frutto della collaborazione tra le potenze “democratiche” e le forze reazionarie del mondo musulmano, portò alla creazione del regime sionista, che da allora fino ai giorni nostri, rappresenta la principale minaccia alla stabilità della regione e dei popoli di fede musulmana. Riguardo alla diretta contingenza tra il progetto colonialista di spartizione dell’impero ottomano e la creazione del regime sionista, Angelo Arioli scrive:
“Alla vigilia della I guerra mondiale, l’impero ottomano che abbraccia buona parte del mondo arabo e del quale la Palestina è provincia amministrativa, versa in profondissima crisi dopo secoli di splendore e potenza economica, e ai suoi ampi possedimenti si volgono le mire degli Stati nazionali europei, interessati ad assicurarsi il controllo di aree strategiche ed economicamente rilevanti. All’interno dell’impero poi, una parte degli arabi aspira ad emanciparsi dagli ottomani, per creare uno Stato arabo unito. Ma questo sogno degli arabi, apparentemente sostenuto dagli inglesi, è di breve durata: mentre promettono sostegno agli arabi per la creazione di un loro Stato in cambio di aiuto contro gli ottomani, gli inglesi trattano segretamente coi francesi e si spartiscono le province arabe dell’impero. La spartizione avverrà puntualmente all’indomani della guerra, con la sconfitta e lo smembramento dei territori ottomani, regolata dalla Conferenza di S. Remo (25.4.1920). In questo quadro generale alla Palestina tocca una sorte particolare, in quanto la sua storia e quella dei suoi abitanti si intreccia con un movimento nato in Europa, il sionismo, mirante alla creazione per gli ebrei di uno Stato in Palestina. Uno dei primi episodi che indica una convergenza diretta tra il sionismo e i progetti coloniali occidentali lo si ha nel 1917, in pieno conflitto mondiale, quando l’Inghilterra, in cambio di pressioni che l’influente comunità ebraica americana avrebbe dovuto effettuare sul governo degli Stati Uniti per convincerlo a entrare in guerra, dichiarava tramite il suo ministro degli Esteri Lord Balfour di vedere con favore la creazione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico”. 


La domanda che dovremmo porci è la seguente: sarebbe stata possibile la creazione del regime sionista sui territori arabi, senza il supporto di alcuni gruppi settari e massimalisti, anti-islamici e reazionari, ai progetti del colonialismo occidentale? Ovviamente no. Solo grazie alla guerra fratricida tra arabi e turchi, tra musulmani di diverse confessioni, alimentata da alcuni estremisti, e studiata a tavolino da potenze straniere, è stata possibile la deflagrazione del mondo islamico e l’istallazione dell’avanguardia occidentale nel cuore del Vicino Oriente. La logica del “divide et impera” non fallisce (quasi) mai.