venerdì 30 agosto 2013

Se Obama diventa Bush

Se Obama diventa Bush

Alireza Rezakhah Khorasannews
Obama-Bush_Nort_t607Nelle ultime settimane l’attenzione dei media internazionali si era concentrata sull’Egitto, sul colpo di stato e sull’alto numero dei morti nelle piazze del Cairo; la crisi era talmente pesante che molti governi hanno deciso di alzare la voce per condannare le violenze. L’Arabia Saudita allora decideva di sostenere i militari e gli Stati Uniti prendevano una posizione ambigua, sottolineando l’importanza del rapido ristabilimento del “processo democratico”. Negli stessi giorni della crisi egiziana, in Libano un attentato in un quartiere di Beirut, ovvero una bomba, causava decine di morti, mentre dopo due gironi dall’attentato la diplomazia saudita si metteva in moto e avvertiva l’UE di non mettersi contro i militari egiziani. Eloquente al riguardo la visita improvvisa del minitro degli esteri di Riad a Parigi. Infatti, mentre l’Europa sembrava intenzionata a punire i militari egiziani per il golpe contro i Fratelli Musulmani, i sauditi ribadivano il fatto che non avrebbero lasciato l’Egitto nella crisi economica, grazie ad un “aiuto” finanziario al governo provvisorio, che rischava di non ricevere più i finanziamenti europei. Qualche giorno dopo arrivava “puntuale” l’attentato a Tripoli, questa volta contro la comunità sunnita libanese (mentre l’attacco di Beirut era contro gli sciiti, anche se tra i morti a dire il vero c’erano pure dei sunniti). Dopo pochi giorni infine, i media hanno dato la notizia di un attacco con armi chimiche alla periferia di Damasco. Questa però non era la prima volta negli ultimi mesi che i ribelli siriani pretendevano che i governativi avessero usato le armi di distruzione di massa. Infatti qualche tempo fa gli oppositori di Assad avevano avuto la stessa pretesa e il presidente americano Obama aveva parlato della famosa “linea rossa”, ovvero che l’uso delle armi chimiche sarebbe stato il motivo che poteva giustificare un intervento straniero in Siria, a salvaguardia della popolazione civile.
Nelle occasioni precedenti però Carla Del Ponte, membro del comitato ONU per la tutela dei diritti umani in Siria, aveva affermato con certezza che le armi chimiche in Siria erano state utilizzate dai ribelli e non dal regime; notizia questa non molto propagandata dai media internazionali. Nella vicenda riguardante gli ultimi giorni però, questione che ha fatto immediatamente dimenticare a tutti la crisi egiziana, l’Occidente si è detto pronto a intervenire militarmente anche fuori dalla decisione dell’ONU: ciò è molto importante perché è la prima volta che USA, Francia e Gran Bretagna prendono una posizione del genere dall’inizio della crisi siriana nel 2011. Sei anni fa i media nordamericani avevano diffuso delle notizie riguardanti la stretta collaborazione tra i sauditi e il governo Bush per indebolire l’asse Iran-Siria-Hezbollah. Allora si disse che il governo americano avesse deciso di cambiare alcuni approcci nei confronti di certe organizzazioni islamiste, vicine alla rete di Al Qaida, soprattutto in Libano, per iniziare un progetto riconducibile al confronto con Hezbollah sul territorio libanese. I sauditi quindi avevano il compito in quella situazione di finanziare i gruppi radicali in Libano, mentre gli americani si dovevano occupare di far pressione al governo siriano per convincerlo a non sostenere più Hezbollah e a trattare con gli israeliani.
Oggi, a distanza di sei anni, con una nuova amministrazione USA, guidata da Obama, siamo dinnanzi allo stesso progetto. Un decennio fa gli USA guidarono una coalizione contro l’Iraq; allora come oggi, il pretesto dell’attacco fu la presenza delle armi di distruzione di massa. Oggi la vittima designata sembra la Siria, sempre con la scusa delle armi chimiche. I mediorientali si ricordano bene di come andò la guerra contro l’Iraq e di come le pretese occidentali si rivelarono infondate, però l’amministrazione americana sembra voler ripercorrere la stessa drammatica strada. Addirittura oggi, è lo stesso Colin Powell, uno dei principali artefici dell’attacco contro l’Iraq, a mettere in guardia Obama; recentemente l’ex segretario di Stato ha detto: “Pensare che possiamo cambiare tutto in poco tempo, solo perché siamo l’America, è una cosa sbaglata”. Obama ci dovrà riflettere bene.
Traduzione di Ali Reza Jalali

lunedì 26 agosto 2013

L’ARCHIVIO DI “EURASIA”

Nell'archivio della rivista di geopolitica "Eurasia", è segnalato l'articolo di Ali Reza Jalali, Che cosa vuol dire Repubblica Islamica?, 2/2012, pp. 117-123

:::: Redazione :::: 18 agosto, 2013 :::: Email This Post   Print This Post
L’ARCHIVIO DI “EURASIA”
Dottrina geopolitica
Abd ar-Rahman Ibn Khaldun, Il deserto e la città, 1/2005, pp. 35-44
Lev Gumilev, Etnogenesi ed etnosfera, 2/2005, pp. 47-54
Alain de Benoist, Geopolitica, 1/2007, pp. 235-236
Pier Paolo Portinaro, Metamorfosi geopolitiche. Stati, federazioni, imperi, 4/2007, pp. 145-156
Claudio Mutti, Il geografo dell’Impero, 2/2008, pp. 17-20
Strabone, Utilità della geografia, 2/2008, pp. 11-12
Nebojsa Vukovic, Geostrategia americana ed Eurasia nella dottrina di Nicholas Spykman, 1/2009, pp. 135-139
Matteo Marconi, Vita activa: gli esempi di Karl e Albrecht Haushofer, 1/2010, pp. 229-236
Sebastián Antonino Cutrona, L’immutabilità della geopolitica classica, 1/2011, pp. 171-189
Vasile Simileanu, Il dialogo geopolitico, 1/2011, pp. 205-212
Marco Tullio Cicerone, L’ideale posizione geografica di Roma, 1/2013, pp. 13-16
Aristotele, Popolazione e territorio della polis ideale, 2/2013, pp. 13-18
Lev Gumilev, Ethnos ed etnonimi, 3/2012, pp. 13-17

Il continente eurasiatico
A. Dugin, L’idea eurasiatista, 1/2004, pp. 7-23
N. S. Trubeckoj, Il nazionalismo paneurasiatico, 1/2004, pp. 25-37
A. Dugin, La visione eurasiatista, 1/2005, pp. 7-24
C. Carpentier de Gourdon, L’imperativo dell’Eurasia, 2/2005, pp. 7-16
M. A. Schwarz, Da Gengis Khan all’ideocrazia. La visione eurasiatica di Nikolaj S. Trubeckoj, 2/2006, pp. 83-90
C. Mutti, Mircea Eliade e l’unità dell’Eurasia, 2/2007, pp. 23-30
C. Mutti, Henri Corbin: l’Eurasia come concetto spirituale, 2/2010, pp. 25-30
C. Mutti, Ananda K. Coomaraswamy e l’unità dell’Eurasia, 1/2011, pp. 21-25
C. Mutti, Nietzsche e l’Eurasia, 1/2012, pp. 15-24

Iran
Marco Ranuzzi de’ Bianchi, Iran: lo Stato canaglia e il grande satana, 1/2005, pp. 117-126
Gabriele Garibaldi, L’Iran, il nodo gordiano del Rimland eurasiatico, 2/2005, pp. 17-46
Pejman Abdolmohammadi, La Repubblica Islamica dell’Iran: il principio della Guida Suprema, 3/2005, pp. 9-17
Mahmud Ahmadinejad, Discorso alla Conferenza “Un mondo senza sionismo”, 1/2006, pp. 253-256
Ali Khamenei, L’ayatollah Khamenei condanna il crimine di Samarra, 2/2006, pp. 237-238
Mahmud Ahmadinejad, Lettera del presidente dell’Iran al presidente degli Stati Uniti, 3/2006, pp. 239-247
Vinod Saighal, Lo scontro sulla questione del nucleare iraniano, 4/2006, pp. 219-225
Mahmud Ahmadinejad, Discorso alla 61a assemblea dell’ONU, 4/2006, pp. 249-255
Dagoberto H. Bellucci, Intervista all’ambasciatore iraniano Abolfazl Zohrevand, 1/2007, pp. 219-224
Tiberio Graziani, La funzione eurasiatica dell’Iran, 1/2008, pp. 5-14
Côme Carpenter de Gourdon, Iran, regno ariano e impero universale, 1/2008, pp. 17-32
Claudio Mutti, L’Iran in Europa, 1/2008, pp. 33-50
Pejman Abdolmohammadi, L’Iran tra Reza Shah e Mosaddegh: modernizzazione, nazionalismo e colpo di Stato, 1/2008, pp. 63-79
Roberto Albicini, Il conflitto economico americano con l’Iran. La grande occasione russa, 1/2008, pp. 81-87
Giovanni Armillotta, Iran. Sport ai massimi livelli e riscatto per le donne musulmane, 1/2008, pp. 89-98
Aldo Braccio, La Repubblica Islamica: dati e situazione, 1/2008, pp. 99-101
Aldo Braccio, Spigolature fraTeheran e Ankara, 1/2008, pp. 103-105      
Michele Gaietta, La profezia che si autoavvera? Nuclearizzazione del conflitto tra Iran e USA, 1/2008, pp. 107-126
Vladimir Jurtaev, Iran: geopolitica e strategia di sviluppo, 1/2008, pp. 127-134
Alessandro Lattanzio, Lo scudo sciita, 1/2008, pp. 135-151
Filippo Romeo, La borsa del petrolio, 1/2008, pp. 153-156
Filippo Romeo, Geopolitica del petrolio e del gas in Iran, 1/2008, pp. 157-164
Vincenzo Maddaloni, Gli ayatollah e il Dragone d’Oriente, 1/2008, pp. 165-176
Mohamed Fadhel Troudi, Le relazioni russo-iraniane. Un approccio storico, 1/2010, pp. 47-62
Spartaco Alfredo Puttini, La rivoluzione islamica dell’Iran, 1/2010, pp. 249-262
Ali Akbar Naseri, L’Iran e la pace nel mondo, 2/2010, pp. 31-37
Ali Reza Jalali, Che cosa vuol dire Repubblica Islamica?, 2/2012, pp. 117-123
Claudio Mutti, La funzione geopolitica dell’Iran, 2/2012, pp. 175-180

Siria
Aldo Braccio, Turchia e Siria, 2/2012, pp. 55-58
Alessandro Lattanzio, Intrigo contro la Siria, 2/2012, pp. 125-155
Carlo Remeny, La destabilizzazione della Siria, 2/2012, pp. 181-184

Palestina
Susanne Scheidt, Quali confini per la Palestina?, 1/2005, pp. 127-148
Stefano Vernole, Palestina: una diplomazia tra speranze e illusioni, 1/2005, pp. 179-200
Enrico Galoppini, “Stato di Israele” o “entità sionista”?, 3/2006, pp. 185-195
Nizar Sakhnini, Sviluppi demografici in Palestina, 4/2006, pp. 131-138
Tiberio Graziani, Palestina provincia d’Eurasia, 2/2009, pp. 5-12
Alessandra Antonelli, Profughi, 2/2009, pp. 37-43
Marco Bagozzi, Disinformazione strategica e finalità militari, 2/2009, pp. 45-54
Aldo Braccio, Testimoni della storia: Mons. H. Capucci e F. Genoud, 2/2009, pp. 55-58
Angelo d’Orsi, Vincitori e vinti, 2/2009, pp. 111-118
Mohamed Larbi Bouguerra, L’appropriazione israeliana della risorsa idrica, 2/2009, pp. 119-134
Vagif A. Gusejnov, Palestina: nuove possibilità per la Russia, 2/2009, pp. 135-139
Pierre-Yves Salingue, Palestina, 60 anni dopo: la divisione o la pace, 2/2009, pp. 179-192
Salman Abu Sitta, Il ritorno dei profughi è inevitabile, 2/2009, pp. 213-223
Michele Gaietta, Geopolitica dell’acqua in Palestina, 4/2012, pp. 211-229

Egitto
Spartaco Alfredo Puttini, L’immagine della Sfinge: l’Egitto nasseriano e l’opinione pubblica italiana, 3/2005, pp. 115-124
Ercolana Turriani, Il sogno panarabo. La Repubblica Araba Islamica, 2/2007, pp. 211-220; 3/2007, pp. 241-246
Claudio Moffa, Il “caso Mattei” e il conflitto arabo-israeliano (1961-1962), 4/2007, pp. 255-269
Aladár Dobrovits, Terra ed essenza egiziana, 3/2009, pp. 31-36
Claudio Mutti, 1956: aggressione contro l’Egitto, 3/2009, pp. 147-157
Maged Rida Butros, Le relazioni tra Egitto e Stati Uniti: il loro contenuto e il loro futuro, 1/2011, pp. 41-58
Lorenzo Salimbeni, La primavera egiziana del 1919, 2/2012, pp. 185-193
Stefano Fabei, L’indipendenza dell’Egitto nei piani dell’Asse, 2/2012, pp. 249-256
Emanuela Locci, La Massoneria in Egitto, 4/2012, pp. 163-171

domenica 25 agosto 2013

Chi ci guadagna dall’uso delle armi chimiche in Siria?

Chi ci guadagna dall’uso delle armi chimiche in Siria?

Di seguito riportiamo la traduzione dal persiano all’italiano dell’editoriale di uno dei più importanti quotidiani iraniani (“Khorasan”) – Traduzione a cura di Ali Reza Jalali
Mohammad Eslami – Khorasan Newspapaer, 24 agosto 2013
486195Senza negare la gravità dei risvolti sociali e politici della crisi siriana, non possiamo fare finta di non sapere che il ruolo dei media è stato fondamentale nell’evoluzione di questa triste vicenda. Un esempio lampante di tutto ciò è l’attacco chimico nei pressi di Damasco, con le terribili immagini mostrate dai media internazionali, riguardanti bambini e civili inermi massacrati. Da mercoledì la prima notizia di tutti i canali è l’attacco con armi chimiche in Siria. In tutto ciò però bisogna sottolineare la clamorosa rivelazione del governo russo, che ha svelato come in realtà l’attacco sia stato perpetrato qualche giorno prima, e le immagini dei media non si riferiscono agli utlimissimi giorni, ma erano state registrate precedentemente. I russi hanno detto esplicitamente che tutto ciò rientra in un piano per fare pressione sul Consiglio di Sicurezza dell’ONU e sugli inviati delle Nazioni Unite in Siria; questi ultimi infatti ora si trovano nel paese arabo e stanno cercando di avere delle informazioni imparziali su quello che sta avvenendo in questa martoriata nazione del Medio Oriente. Bisogna capire ore il perché di tutto ciò; secondo me dobbiamo prendere in considerazione due fattori, sia a livello siriano, che a livello regionale.
La logica e la ragionevolezza impone di capire che il governo e l’esercito damasceno non hanno alcun vantaggio ad usare le armi chimiche. Soprattutto ora che gli inviati dell’ONU si trovano in loco. Il governo siriano al contrario, ha tutto l’interesse a far capire agli inviati delle Nazioni Unite le buone intenzioni della Siria. Sono mesi che Damasco cerca di far capire al mondo che le stragi nel paese arabo sono opera non delle forze governative; d’altronde la zona del presunto attacco chimico non era coinvolta in scontri di particolare rilievo tra forze regolari e oppositori. I principali campi di battaglia sono la regione di Homs e quella di Aleppo, quindi un attacco era più logico che avvenisse in quelle aree, e non di certo a ridosso della capitale. Un altro campo di battaglia strategico era Qusayr, al confine col Libano, zona bonificata qualche tempo fa senza l’uso di armi chimiche. Non ha nessun senso per il governo usare le armi chimiche in un contesto come quello della periferia della capitale, al momento non interessata da battaglie strategiche. Senza dimenticare che in generale la battaglia in Siria procede a favore del governo.
Non vi sono ancora reportage completi concernenti la vicenda, ma ciò che emerge con chiarezza è il fatto che i ribelli, usando le armi chimiche, possono richiamare l’attenzione degli ispettori dell’ONU, ovviamente dando la colpa al governo. Quindi siamo di nuovo di fronte a un crimine perpetrato dai terroristi vicini ad Al Qaida e ai gruppi estremisti, contro la popolazione inerme, cose già viste in Siria, ad esempio quando i ribelli usarono le armi chimiche nella regione di Khan Al Asal, provocando una strage di siriani, nei pressi di Aleppo. Inoltre, a livello regionale, non possiamo non ritenere l’attacco chimico isolato dal contesto dei paesi limitrofi. L’attentato di Tripoli in Libano, il lancio di razzi dal paese dei cedri su Israele, l’attacco israeliano contro i palestinesi del Libano, sono da leggere in un unico scenario. Il lancio di razzi su Israele è stato rivendicato dal gruppo delle Brigate Abdallah Azzam, coinvolta nella guerra alla Siria, a dimostrazione di come siano legate le sorti dei vari paesi della regione. Inoltre le nuove vicende siriane, a livello mediatico, hanno oscurato la crisi egiziana e hanno rimesso la luce dei riflettori sul Libano e sulla Siria.
Il dissidio tra Al Jazeera e Al Arabya, sulla vicenda egiziana quindi, sulla Siria è di nuovo venuto meno.Al Jazeera in Egitto sostiene i Fratelli Musulmani, mentre Al Arabya è dalla parte dei militari e del governo provvisorio. In questi gironi avevamo visto che il governo saudita era sotto pressione internazionale per la sua posizione favorevole al golpe egiziano, ora però la voce dei media arabi è nuovamente unita contro la Siria. Il massacro di 500-1000 civili inermi siriani, ha fatto sì che i media arabi anti-siriani si concentrassero nuovamente sulle vicende del paese governato da Assad, dimenticando così le divergenze concernenti il colpo di stato egiziano.

venerdì 23 agosto 2013

Scoppia la faida tra Turchia e Arabia Saudita?





A cura di Ali Reza Jalali 



Dopo un periodo di difficoltà, le relazioni tra la Turchia e l'Arabia Saudita sembravano essere migliorate molto, per via di una serie di interessi comuni in ambito strategico, regionale e economico. Le relazioni si erano rafforzate soprattutto grazie alle rivolte nel mondo arabo, per via del supporto dei due paesi alla ribellione in Siria e all'interesse comune di fermare l'espansionismo iraniano in Medio Oriente. Ma il colpo di stato egiziano ha reso questa partnership meno intensa, per via delle due visioni contrapposte riguardo alla caduta del presidente egiziano Mohammed Morsi. 


La leadership turca ha chiaramente espresso il proprio dissenso per la deposizione di un governo islamista ideologicamente affine al partito di Erdogan. Il premier turco è arrivato a chiedere l'intervento delle Nazioni Unite e del Consiglio di Sicurezza per fermare quello che egli ha definito il massacro del popolo egiziano da parte dei militari golpisti. Sembra che alcuni dirigenti turchi siano arrivati ad affermare: "Come è possibile che un paese che si autoproclama avanguardia e custode dell'Islam, possa sostenere un colpo di stato contro un governo islamista democraticamente eletto?"


La leadership turca ha fatto anche un appello alla Organizzazione della Conferenza Islamica (OIC), e al suo capo, il turco Ekmeleddin Ihsanoglu, per condannare il colpo di stato. Il Vice Primo Ministro di Ankara, Bekir Bozdag, ha rimproverato Ihsanoglu per l'inerzia dell'organizzazione a seguito della pesante repressione dell'esercito egiziano contro i manifestanti dei Fratelli Musulmani. Bozdag addirittura ha invitato il capo dell'ente internazionale a dimettersi per "passività disonorevole". Tuttavia, non è chiaro se questa situazione di stallo attuale avrà conseguenze negative di lunga durata per la cooperazione tra i due paesi. L'Arabia Saudita ha bisogno della Turchia in Siria, mentre la Turchia resta desiderosa di attirare maggiori investimenti sauditi, stimati oggi a più di 1,9 miliardi di dollari.





Dal qualche tempo però, i media filo-governativi turchi hanno iniziato una pesante campagna mediatica contro i sauditi e altri paesi del Golfo Persico, per il loro sostegno al colpo di stato, definendo i legami tra tali paesi come una sorta di "asse del male", con storie sensazionali, come la vicenda della presunta esternazione dalla figlia dell'emiro di Dubai, Al Maktoum: "La strage in Egitto viene effettuata tramite il nostro denaro." La Turchia è un paese della regione mediorientale in cui gli islamisti, i laici, i progressisti e i liberali, a oggi, anche se per motivi diversi, concordano su una immagine negativa dell'Arabia Saudita. Sui media sauditi invece, mentre la partnership turco-saudita è ufficialmente celebrata come una grande nuova alleanza strategica, la stampa saudita lancia di tanto in tanto attacchi contro il "sultano Erdogan", volenteroso di costituire un nuovo impero ottomano, a scapito degli arabi.


Gli attacchi più feroci però hanno una valenza religiosa, contro una Turchia accusata di applicare un Islam approssimativo, tollerante del consumo di alcol e della dissolutezza nei quartieri frequentati dai giovani a Istanbul. La tradizione Sufi della Turchia si trova all'estremità opposta della visione salafita saudita, visione che ancora oggi, nel XXI secolo, non permette alle donne di guidare l'automobile. Tali attacchi riecheggiano quelli che emersero nell'Ottocento, quando l'espansione wahhabita in Arabia e le continue vessazioni dei pellegrini spinsero il sultano ottomano a riaffermare la sua autorità sulle città sante di Mecca e Medina. Ironia della sorte, nel 1818 il sultano invocò l'aiuto dell'esercito egiziano sotto la guida di Ibrahim Pascià per liberare la regione dall'influenza saudita.




Quando iniziarono le rivolte nel mondo arabo, i media sauditi respinsero qualsiasi processo di democrazia islamica sul modello turco o anche egiziano, e proposero una via saudita allo sviluppo e all'Islam. Fuori dai confini nazionali però, non ci sono forze di governo che siano interessate a questo modello salafita, in quanto, come abbiamo visto, gli stessi Fratelli Musulmani, guardavano con convinzione più alla Turchia. Recentemente, un giornalista saudita ha scritto un articolo sul quotidiano al-Riyadh riguardo la Fratellanza Musulmana e il cosiddetto "Erdoganismo"; l'articolo era molto critico della politica turca e ha indotto l'ambasciatore turco a Riad, Ahmad Gun, a inviare una risposta, pubblicata nello stesso giornale. Egli ha affermato che l'articolo scritto dal giornalista saudita era aggressivo e ingiusto. Ha elogiato la stretta collaborazione tra i due stati, e chiarito l'eredità positiva dell'Impero Ottomano. Questo patrimonio comune ottomano appartiene a tutti i musulmani, secondo l'ambasciatore. Uno Stato democratico civile in Egitto, che attinge la sua legittimità dal costituzionalismo è ciò che la Turchia vuole per gli egiziani, ha scritto l'ambasciatore.


Questa guerra mediatica è destinata a continuare tra l'Arabia Saudita e la Turchia, mentre le due dirigenze lottano per mantenere la patina del partenariato. Entrambi i paesi hanno bisogno l'uno dell'altro in punti caldi fuori dall'Egitto, principalmente in Siria, dove dopo lo scoppio della rivolta, non sembra esserci fine alla guerra che contrappone i rivoltosi sponsorizzati da Ankara e Riad alle forze governative vicine all'Iran. In ogni caso la diatriba tra Arabia e Turchia, almeno a livello mediatico, ma forse anche diplomatico, sembra favorire il governo siriano, pronto a sfruttare al meglio anche le divergenze emerse tra l'opposizione armata, con gli scontri crescenti tra Al Nusra (sponsorizzata dai sauditi) e i filo-turchi dell'esercito libero (Fratelli Musulmani e altri gruppi minori).  

martedì 20 agosto 2013

انتشار کتاب "جمهوری اسلامی ایران؛ حقوق داخلی و سیاست بین‌الملل" در ایتالیا اثر جدید علیرضا جلالی

Recensione su un sito iraniano http://mwfpress.com - del libro di Ali Reza Jalali "La Repubblica Islamica dell'Iran" http://alirezajalali1.blogspot.it/2013/05/ali-reza-jalali-la-repubblica-islamica.html


انتشار کتاب "جمهوری اسلامی ایران؛ حقوق داخلی و سیاست بین‌الملل" در ایتالیا

انتشار کتاب "جمهوری اسلامی ایران؛ حقوق داخلی و سیاست بین‌الملل" در ایتالیا
کتاب "جمهوری اسلامی ایران؛ حقوق داخلی و سیاست بین‌الملل" نوشته علیرضا جلالی، نویسنده، محقق مسائل ایران و خاورمیانه و فعال بین‌الملل در ایتالیا منتشر شد.
به گزارش جبهه جهانی مستضعفین، مرکز انتشارات ایتالیایی "Irfan Edizioni"، این کتاب را منتشر کرده است. گفتنی است کلودیو موتی، سردبیر نشریه ژئوپولتیک اوراسیا برای این کتاب یادداشتی را تقدیم کرده است.

علیرضا جلالی در فصل اول این کتاب به تحلیل رابطه میان قوای مختلف، به خصوص دولت و مجلس پرداخته است. در بخش دوم این کتاب، مسائل ژئوپولتیک خاورمیانه و جهان بررسی شده است. به عنوان مثال، جلالی در این بخش به اتحاد میان ایران، سوریه، لبنان و مقاومت فلسطین که محور مقاومت نامیده می‌شود، اشاره کرده و معتقد است این اتحاد نه تنها ضدصهیونیستی است، بلکه مخالف دخالت ناتو در خاورنزدیک و آسیای میانی نیز هست. همچنین رابطه ایران با قدرت‌های منطقه یعنی روسیه و چین نیز بسیار مهم قلمداد شده است.

در کتاب مذکور شرایط ایران در مواجهه با تعصبات رسانه‌ای غرب و رسانه‌های تحت تاثیر صهیونیسم جهانی تحلیل شده است. نویسنده این کتاب معتقد است با وجود فشارهای غرب، ایران نه تنها منزوی نشده، بلکه به نوعی هدایت‌گر جریان‌های بیداری شکل گرفته در منطقه نیز بوده و حتی رهبری بیش از ۱۲۰ کشور عضو جنبش عدم تعهد را نیز بر عهده دارد.


lunedì 19 agosto 2013

Il colpo di stato della CIA contro Mosaddeq (agosto 1953)

A cura di Ali Reza Jalali 
“Sì, il mio peccato – il mio peccato più grande è che ho  nazionalizzato l’industria petrolifera iraniana e scartato il sistema di sfruttamento politico ed economico del più grande impero del mondo. Questo a costo di me stesso, della mia famiglia, e con il rischio di perdere la mia vita, il mio onore e la mia proprietà. Con la benedizione di Dio e la volontà del popolo, ho combattuto questo sistema selvaggio e terribile di spionaggio internazionale e di colonialismo.”

Mohammad Mosaddeq 




Qualche anno fa, il New York Times ricevette il rapporto ufficiale del colpo di stato organizzato nel 1953 dalla Cia contro il primo ministro iraniano Mohammad Mosaddeq; ovviamente chi segue la storia del Medio Oriente non aveva bisogno dell'ufficialità, tutti infatti, mi verrebbe da dire, anche i muri, sanno che nel '53 con l'appoggio degli USA e degli occidentali, l'esercito iraniano interveniva e rovesciava il governo nazionalista di Mosaddeq. Questi giorni ricorre l'anniversario di quel golpe in piena guerra fredda. Mossadeq era allora leader del Fronte nazionale, organizzazione politica fondata nel 1949 che mirava alla nazionalizzazione dell'industria petrolifera, all'epoca sotto controllo britannico, e alla esecuzione dei principi della costituzione iraniana, di stampo monarchico-islamica, approvata grazie alla rivoluzione costituzionale dei primi del Novecento. Due questioni che avevano grande presa sulla popolazione, tanto che il Fronte nazionale era diventato rapidamente l'attore principale sulla scena politica iraniana. Nel 1951, il sovrano Mohammad Reza Pahlavi si vide costretto a nazionalizzare l'industria petrolifera e a nominare Mosaddeq primo ministro, mettendosi in aperto conflitto con il governo britannico. La Gran Bretagna reagì organizzando un embargo totale contro il petrolio iraniano e avviando una serie di manovre a lungo termine con l'obiettivo di rovesciare Mosaddeq. Oltre al petrolio gli occidentali avevano paura di un avvicinamento tra URSS e Iran. I sovientici infatti erano impegnati a creare una sorta di zona di influenza ai propri confini meridionali, per avere accesso ai cosiddetti mari caldi (Oceano Indiano), sfondando verso sud, annullando così la strategia dell'anaconda degli occidentali, volta a stritolare l'URSS, un progetto di accerchiamento promosso da ovest (Europa), sud (Medio Oriente) e est (Giappone, Corea e sud est asiatico). Gli Stati uniti decisero inizialmente di restare neutrali e incoraggiarono i britannici ad accettare la nazionalizzazione, cercando, allo stesso tempo, di negoziare un compromesso, e arrivando fino al punto di far desistere Londra, nel settembre 1951, dall'idea di invadere l'Iran. Sebbene numerosi dirigenti americani ritenessero che l'ostinazione di Mosaddeq creasse un clima di instabilità politica che esponeva l'Iran al rischio di passare dall'altra parte della cortina di ferro, l'atteggiamento di neutralità fu mantenuto fino alla scadenza dell'amministrazione di Harry S. Truman nel gennaio 1953. Nel novembre 1952, poco dopo l'elezione alla presidenza degli Stati uniti del generale Dwight D. Eisenhower, alcuni alti responsabili britannici proposero ai loro omologhi americani di organizzare congiuntamente un colpo di stato contro Mosaddeq. La risposta fu che l'amministrazione uscente non avrebbe mai intrapreso una tale operazione, ma quella di Eisenhower, che sarebbe entrata in carica a gennaio, avrebbe probabilmente accettato, vista la sua determinazione ad intensificare la guerra fredda. Il rapporto della Cia racconta in modo chiaro il modo in cui fu preparata l'operazione. Ottenuta l'autorizzazione del presidente Eisenhower nel marzo 1953, gli ufficiali della Cia studiano il modo in cui organizzare il colpo di stato e iniziano a porsi il problema della sostituzione del primo ministro. La loro scelta cade subito su Fazlollah Zahedi, un generale in pensione che aveva già complottato con i britannici. A maggio, un agente della Cia e un esperto dell'Iran che lavora per il Secret Intelligence Service (Sis) britannico trascorrono due settimane a Nicosia, sull'isola di Cipro, per mettere a punto una prima versione del piano. Questa bozza preparatoria sarà poi rivista da altri responsabili della Cia e del Sis, che ne elaboreranno una versione definitiva a Londra a metà giugno. Il piano finale prevedeva sei fasi principali. In primo luogo, la sezione iraniana della Cia e la principale rete di spionaggio britannica in Iran, diretta all'epoca dai fratelli Rashidan, dovevano destabilizzare il governo Mosaddeq con azioni di propaganda e altre attività politiche clandestine. In seguito, Fazlollah Zahedi avrebbe costituito una rete di ufficiali in grado di compiere il colpo di stato. In terzo luogo, la squadra della Cia doveva comprare la collaborazione di un numero sufficiente di parlamentari iraniani per assicurarsi l'ostilità del potere legislativo a Mosaddeq. Poi, bisognava ottenere l'appoggio del sovrano sia al colpo di stato che a Zahedi, anche se si era deciso che l'operazione sarebbe stata comunque portata avanti, con o senza l'accordo del monarca. A questo punto, la Cia doveva tentare di rovesciare Mosaddeq in modo quasi legale, provocando cioè una crisi politica che avrebbe portato il Parlamento a destituirlo. Secondo il piano, la crisi doveva essere provocata facendo organizzare ai leader religiosi manifestazioni di protesta, che avrebbero persuaso il re ad abbandonare il paese e creato una situazione tale da spingere Mosaddeq a dimettersi. Infine, se il tentativo fosse fallito, la struttura militare messa in piedi da Fazlollah Zahedi si sarebbe impossessata del potere con l'aiuto della Cia. Il 4 aprile, la sezione della Cia di Tehran riceve un milione di dollari destinati a far cadere Mosaddeq con qualunque mezzo. A maggio, scatena, insieme ai fratelli Rashidian, una campagna di propaganda contro Mosaddeq e, presumibilmente, organizza altre azioni clandestine contro di lui. Gli sforzi vengono accelerati nel corso delle settimane che precedono il colpo di stato. La Cia prende contatto con Fazlollah Zahedi in aprile, versandogli 60.000 dollari (e forse anche di più) affinché trovi nuovi alleati e influenzi personalità di primo piano. Il resoconto ufficiale nega che siano stati comprati ufficiali iraniani; è tuttavia difficile immaginare in quale altro modo abbia potuto Zahedi spendere questi soldi. La Cia si accorge rapidamente che quest'ultimo è sprovvisto della necessaria determinazione, dell'energia e di una concreta strategia e non è quindi in grado di mettere in piedi una struttura militare capace di portare a compimento il colpo di stato. Il compito viene dunque affidato ad un colonnello iraniano che già lavorava per la Cia. Alla fine di maggio del 1953, la sezione della Cia è autorizzata a investire circa 11.000 dollari a settimana per assicurarsi la cooperazione dei parlamentari. Aumenta sensibilmente l'opposizione a Mosaddeq, il quale reagisce invitando i parlamentari che gli sono fedeli a dimettersi, così da far mancare il numero legale e portare allo scioglimento del Parlamento. Per contrastarlo, la Cia cerca allora di convincere alcuni parlamentari a ritirare le dimissioni. All'inizio di agosto, Mosaddeq organizza un referendum nel corso del quale gli iraniani si pronunciano in massa a favore dello scioglimento e per nuove elezioni. Questo impedisce ormai alla Cia di portare avanti le sue azioni quasi legali, anche se continua a far uso della propaganda per accusare Mosaddeq di aver falsificato il referendum. Il 25 luglio, la Cia inizia un'opera di pressione e una lunga serie di manovre per persuadere lo scià ad appoggiare il colpo di stato ed accettare la nomina di Fazlollah Zahedi a primo ministro. Nelle tre settimane successive, quattro inviati incontrano lo scià quasi ogni giorno per convincerlo a collaborare. Il 12 o il 13 agosto, quest'ultimo, malgrado le reticenze, finisce per accettare e firma i decreti reali che portano alla destituzione di Mosaddeq e alla nomina di Zahedi al suo posto. Ad agire in tal senso l'avrebbe persuaso la regina Soraya. Vi sono però dei punti oscuri nel rapporto della Cia. Il 13 agosto, la Cia incarica il colonnello Namatollah Nassiri di consegnare gli editti reali a Zahedi e Mosaddeq. Ma le lungaggini dei negoziati con lo scià hanno fatto trapelare il segreto, tanto più che uno degli ufficiali coinvolti svela l'esistenza di un complotto. Mosaddeq fa arrestare Nassiri, nella notte tra il 15 e il 16 agosto proprio mentre questo si appresta a consegnare il primo decreto. Poco dopo, altri congiurati subiscono la stessa sorte. Preparata a una simile eventualità, la Cia aveva preparato alcune unità militari favorevoli a Zahedi ad impadronirsi di alcuni punti nevralgici di Tehran e compiere il colpo di stato. Ma gli ufficiali responsabili si eclissano al momento dell'arresto di Nassiri, provocando il fallimento di questo primo tentativo di golpe. Zahedi e altri responsabili del complotto si rifugiano allora in diversi nascondigli predisposti dalla Cia. Lo scià fugge in esilio, prima a Baghdad, poi a Roma, e Kermit Roosevelt, direttore della sezione locale della Cia, annuncia a Washington che il colpo di stato è fallito. Poco dopo, riceve l'ordine di interrompere l'operazione e rientrare negli Stati Uniti. Ma Kermit Roosevelt e la sua squadra decidono allora di improvvisare un secondo tentativo. Cominciano a distribuire ai media copie dei decreti dello scià, per mobilitare l'opinione pubblica contro Mosaddeq. I giorni successivi, i due principali agenti iraniani portano avanti, con lo stesso obiettivo, una serie di operazioni occulte. Per aizzare gli iraniani credenti contro Mosaddeq, proferiscono minacce telefoniche ai capi religiosi e inscenano un attentato contro la casa di un ecclesiastico, facendosi passare per membri del potente partito comunista Tudeh. Il 18 agosto, organizzano una serie di manifestazioni i cui partecipanti sostengono di essere membri del Tudeh. Su istigazione di questi due agenti, i manifestanti saccheggiano la sezione di un partito politico, abbattono statue dello scià e di suo padre e seminano il panico a Tehran. Rendendosi conto di ciò che sta accadendo, il Tudeh invita i suoi iscritti a non uscire di casa, il che impedisce loro di opporsi ai manifestanti anti-Mosaddeq che il giorno seguente invadono le strade. La mattina del 19 agosto, questi ultimi cominciano a riunirsi nei pressi del bazar di Tehran. Il resoconto della Cia definisce queste manifestazioni semi-spontanee, ma aggiunge che le circostanze favorevoli create dall'azione politica [della Cia] contriburono a farle esplodere. In effetti, la divulgazione dei decreti dello scià, le false manifestazioni del Tudeh e le altre operazioni occulte portate avanti nei giorni precedenti hanno spinto numerosi iraniani ad unirsi a tali manifestazioni. Diversi agenti iraniani della Cia conducono allora i manifestanti nel centro di Tehran e convincono le unità dell'esercito a seguirli, incitando la folla ad attaccare il quartier generale di un partito favorevole a Mosaddeq e ad incendiare un cinema e diverse redazioni di giornali. Le unità militari ostili a Mosaddeq cominciano allora ad assumere il controllo di Tehran, impadronendosi delle stazioni radio e di altri punti chiave. Esplodono violenti gli scontri, ma le forze favorevoli al primo ministro sono sconfitte. Mosaddeq si nasconde, ma il giorno dopo si arrende. Il resoconto della Cia lascia in sospeso due questioni fondamentali. Innanzitutto, non chiarisce l'origine del tradimento che ha fatto fallire il primo tentativo di golpe, accontentandosi di ridurre il motivo di tale fallimento alle rivelazioni di uno degli ufficiali dell'esercito iraniano coinvolti. Inoltre, non spiega in che modo l'azione politica della Cia abbia favorito l'organizzazione delle manifestazioni del 19 agosto, né quanto abbia inciso sul loro inizio. Altri resoconti del colpo di stato basati su interviste a partecipanti di primo piano suggeriscono che la Cia avrebbe fornito indirettamente denaro ai capi religiosi, i quali probabilmente non erano al corrente dell'origine di tali fondi. Ma questa versione non è confermata dal rapporto della Cia. E, visto che la quasi totalità delle persone coinvolte è oggi deceduta e la Cia sostiene di aver distrutto la maggior parte degli archivi riguardanti l'operazione, tali dilemmi sono probabilmente destinati a rimanere insoluti. È anche difficile riuscire a capire chi vi sia all'origine della fuga di notizie che ha permesso la divulgazione di questo rapporto ufficiale e quale sia il vero scopo di questa fuga. Casualmente, un mese prima, l'allora segretaria di stato Madeleine Albright aveva ammesso per la prima volta, durante un importante discorso destinato a promuovere il riavvicinamento tra Stati uniti e Iran, il coinvolgimento del governo americano nel colpo di stato e aveva chiesto scusa . Molti ritengono che la fuga di notizie sia stata deliberatamente organizzata dal governo o da una persona decisa a sostenere l'iniziativa della Albright. Ammesso che sia vero, è tuttavia difficile credere che il rapporto avrebbe potuto essere divulgato nella sua integralità, anche se una simile eventualità non si può del tutto escludere.


Il grande limite dell'esperienza di Mosaddeq, fu la mancanza di unità tra le varie anime della rivolta anti-imperialista (principalmente alcuni nazionalisti, alcuni islamici e i comunisti). Se questi gruppi avessero mantenuto unità, la reazione dell'esercito, forse, non sarebbe stata così rapida, senza grandi opposizioni popolari. Quella esperienza in ogni caso, fu un fatto importante nello smascherare le mire imperialiste degli USA, e nel far capire al popolo iraniano che i nordamericani non sono amici dei popoli, ma solo di regimi reazionari asserviti, soprattutto in Medio Oriente.

giovedì 15 agosto 2013

Giornata di Gerusalemme (Video)

Giornata mondiale di Gerusalemme, intervento di Alì Reza Jalali. Palestina e Asse della Resistenza. Primavera araba.

Al seguente link potete seguire l'intervento completo.

http://www.youtube.com/watch?v=xicQBXWpA-c

martedì 13 agosto 2013

Iran, Siria: implementare l’influenza in Cisgiordania


Iran, Syria: Smuggling Weapons to Gain Influence in the West Bank
Sommario
Ci sono crescenti indicazioni che l’Iran, la Siria e il loro alleati regionali stiano tentando di implementare le proprie capacità in Cisgiordania per minacciare Israele. Infatti il trasferimento di armi in Cisgiordania, controllata da Fatah, resta una sfida chiave, come i recenti arresti di trafficanti di armi in Giordania hanno dimostrato. Anche se l’Iran e la Siria devono affrontare molti vincoli per cercare di diffondere la propria influenza in Cisgiordania, i loro sforzi sono degni di nota, in particolare visto cje Hamas e l’Iran sono ora impegnati a riparare il loro rapporto dopo un periodo di tensione.

Analisi
Negli ultimi giorni, le autorità giordane hanno riportato due diversi incidenti in cui gruppi di contrabbandieri che viaggiavano dalla Siria sono stati catturati con armi e droga in Giordania. Un funzionario della sicurezza giordana parlando ai media locali, ha detto che cinque trafficanti siriani sono stati catturati la mattina del 6 agosto con missili anticarro, missili terra-aria e fucili d’assalto in loro possesso. Secondo una fonte Stratfor, gli arresti sono stati effettuati nei pressi di Madaba nella Giordania centrale. I trafficanti, con carte d’identità giordane, presumibilmente nascondevano le armi in due camioncini carichi di angurie, ma quando i due camion hanno oltrepassato il principale mercato di prodotti ortofrutticoli e hanno proseguito in direzione sud, la polizia giordana si è insospettita. L’agenzia statale gioradana Petra ha detto che l’esercito aveva sventato un altro tentativo di contrabbandare una grande quantità di droga e di armi dalla Siria in Giordania all’inizio della settimana.

La Giordania è la via principale per la fornitura di armi (soprattutto da parte dei fornitori del Golfo) per i ribelli nella Siria meridionale. Pertanto, le armi che viaggiano nella direzione opposta – dalla Siria in Giordania – spiccano. La Giordania è già in allerta per eventuali attacchi, data la sua storia e le attività jihadiste, nonché per la proliferazione di jihadisti nella vicina Siria. Inoltre, il tentativo della Giordania di bilanciare tra il sostenere i ribelli e il mantenimento di un rapporto con il regime alawita siriano potrebbe rendere il paese vulnerabile ad attacchi da parte di militanti su entrambi i lati del conflitto. Le autorità giordane hanno quindi cercato di rafforzare la sicurezza sul confine siriano-giordano e sono strettamente limitati movimenti di profughi siriani nel nord intorno alla zona del campo profughi di Zaatari, dove i militanti potrebbero cercare di confondersi con migliaia di profughi.
Tuttavia, proprio l’indagine di Stratfor per ciò che concerne l’invio di armi in viaggio attraverso la Giordania rivela un target completamente diverso. I contatti dimostrano che i trafficanti catturati il 6 agosto sono stati dei palestinesi provenienti dalla Siria, che erano affiliati con il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina-Comando generale. I sospetti presumibilmente stavano trasportando armi ottenute dai magazzini dell’esercito siriano a Sweida, nel sud-ovest della Siria. Le armi dovevano essere trasportate attraverso la Giordania, dal confine siriano verso sud ad Al Karak, per aggirare la grande presenza di forze di sicurezza attorno la valle del fiume Giordano. La destinazione finale di queste armi, secondo i contatti, era destinato ad essere Hebron in Cisgiordania, zona sotto il controllo di Fatah.

Così come emergeva da un’analisi di Stratfor, riconducibile al novembre 2012, quando i contatti palestinesi della regione hanno riferito che l’Iran stava lavorando con gruppi palestinesi per tentare di trasportare munizioni attraverso l’Iraq e la Giordania alla Cisgiordania, hanno dimostrato che per raggiungere questo obiettivo, l’Iran starebbe probabilmente lavorando coi servizi segreti siriani e delegati palestinesi locali. Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina-Comando generale, al quale i contrabbandieri sono stati presumibilmente affiliati, ha avuto uno stretto rapporto di collaborazione con i servizi segreti siriani, ed è plausibile che i membri sarebbero stati incaricati di trasportare le armi da magazzini siriani alla Cisgiordania. Anche se laico e di sinistra, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina-Comando generale, e quindi in contrasto ideologico con l’islamista Hamas, queste dispute possono essere offuscate in tali operazioni, soprattutto quando sono intrapresi per volere dei patroni siriani dei gruppi. Hamas ha una presenza limitata in Cisgiordania, ma gode di sostegno in alcuni dei villaggi circostanti a Hebron, dove le armi erano presumibilmente dirette.
I piani di Iran e Siria per la Cisgiordania
Sia l’Iran che la Siria vorrebbero costruire una fonte supplementare di leva militante contro Israele. Il regime iraniano è preoccupato con l’ascesa dei Fratelli Musulmani nella regione che ha portato Hamas a prendere le distanze dall’asse Iran-Siria. Quando i Fratelli Musulmani erano al potere in Egitto, e quando gli islamisti siriani stavano facendo progressi nella loro ribellione contro il regime di al Assad, Hamas ha calcolato che in questo ambiente settario era meglio allinearsi con i suoi alleati ideologici che rischiare di alienarsi il consenso di questa parte, non mantenendo più una stretta relazione con i regimi siriano e iraniano. Mentre le tensioni settarie sono cresciute nel corso della battaglia siriana di Qusair in primavera, i rapporti dalla regione ci informavano che alcuni combattenti di Hamas si erano uniti ai ribelli sunniti in Siria contro il regime. A quel punto, l’Iran ha dovuto preoccuparsi per il suo indebolimento a Gaza, in Siria e in Libano, il tutto mentre Hezbollah, alleato dell’Iran è stato fortemente impegnato nel cercare di tenere la sua supremazioa in Libano mentre combatteva i ribelli sunniti in Siria.
Ma l’Iran ha anche cercato diversi metodi per mantenere la sua influenza tra i palestinesi. Anche se Hamas ha cercato di prendere pubblicamente le distanze da Teheran, riceveva offerte da parte dell’Iran di missili a lungo raggio (Fajr-5), che quasi ha portato a una invasione israeliana di Gaza, alla fine del 2012 e ha dimostrato che c’è ancora un rapporto forte tra gli alleati ideologicamente opposti . Con i Fratelli Musulmani in Egitto politicamente emarginati, l’esercito egiziano è piombato su Hamas nella penisola del Sinai e ha cercato di tagliare le linee di rifornimento del gruppo e dei ribelli della Siria in una situazione di stallo con il regime; in questo modo Hamas rischia di trovare ancora più motivi per restare vicino a Teheran. L’Iran, nel frattempo, sta cercando di compensare le sfide settarie che affrontano i suoi alleati in Siria, Libano e Iraq ampliando la sua rete di militanti ovunque sia possibile. Parte di questa strategia comporta la costruzione di una presenza in Cisgiordania per minacciare Israele. Questa strategia rientra anche in linea con l’interesse di Hamas per indebolire Fatah, tanto più che l’Autorità nazionale palestinese e Fatah si impegnano in altri negoziati di pace con Israele, che a sua volta non riconosce Hamas come autorità nella Striscia di Gaza.
Le sfide per i piani iraniani e siriani
Fisicamente operare in Cisgiordania non è facile. Fatah è il partito dominante in Cisgiordania e controlla le forze di sicurezza locali, che spesso arrestano i membri di Hamas. La leadership di Fatah continuerà a impedire a Hamas di fare serie incursioni in Cisgiordania, che potrebbero finire per minacciare ulteriormente la credibilità di Fatah. Inoltre, l’aumento della presenza delle forze di sicurezza della Giordania, al confine con la Siria, la collaborazione Israele-Fatah e la pesante presenza dell’esercito di Israele attorno alla Valle del Giordano, fanno emergere una situazione difficile, come dimostrano anche gli arresti dei contrabbandieri in Giordania.
Queste sfide però non hanno scoraggiato l’Iran e la Siria dal tentativo di utilizzare le loro reti locali per costruire nascondigli di armi in Cisgiordania, in modo che le fazioni militanti palestinesi finalmente possano provare a tendere un’imboscata alle Forze di Difesa israeliane. L’inclusione di armi anticarro e sistemi di difesa anti-aerea in queste spedizioni di armi in Cisgiordania sarebbero particolarmente allarmante per Israele. La minaccia non si è ancora materializzata, ma questi sforzi impongono una seria attenzione.
Traduzione a cura di Ali Reza Jalali

sabato 10 agosto 2013

Dai Balcani all’India: Mahmud di Ghazni e il suo “impero eurasiatico”


Ali Reza Jalali
Mahmud-GhaznaviIl primo sovrano nella storia ad assumere il titolo di “Sultan” era Mahmud di Ghazni, fondatore dell’Impero Ghaznavide. Il suo titolo significava che anche se lui era il capo politico di una vasta fascia di territorio, che comprendeva gran parte di quello che oggi è l’Iran, oltre al Turkmenistan, Uzbekistan, Kirghizistan, Afghanistan, Pakistan e l’India del Nord, il Califfo musulmano è rimasto il leader religioso dell’impero. Chi era questo insolitamente umile conquistatore? Come ha fatto Mahmud di Ghazni a essere il sultano di un vasto regno?
Nel 971, Yamin ad-Dawlah Abdul-Qasim Mahmud ibn Sabuktegin, meglio noto come Mahmud di Ghazni, nacque appunto nella città di Ghazni, oggi nel sud-est dell’Afghanistan. Il padre del bambino, Abu Mansur Sabuktegin, era turco, un ex mamelucco, guerriero di origine slave (Balcani) di Ghazni. Quando la dinastia Samanide, con sede a Bukhara (oggi in Uzbekistan) ha cominciato a sgretolarsi, Sabuktegin prese il controllo della sua città, Ghazni, nel 977. Ha poi continuato a conquistare altre grandi città afgane, come Kandahar. Il suo regno ha costituito il nucleo dell’Impero Ghaznavide, e a lui si attribuisce la nascita della dinastia. La madre del bambino, Mahmud, era probabilmente anche lei di origini slave. Il suo nome però non venne registrato nei libri di storia. Non si sa molto sull’infanzia di Mahmud di Ghazni. Sappiamo che aveva due fratelli più giovani, e che il secondo, Ismail, nacque da una donna “libera”, e non da una schiava come la madre di Mahmud. Il fatto che lei, a differenza della madre di Mahmud, era una donna libera, di sangue nobile, sarebbe stata una cosa fondamentale per la questione della successione, quando Sabuktegin morì durante una campagna militare nel 997. Sul letto di morte, Sabuktegin decise che sarebbe diventato sovrano il secondo figlio, Ismail. Sembra probabile che egli avesse scelto Ismail perché non discendeva da schiavi, a differenza dei fratelli maggiori e minori. Quando Mahmud, che era di stanza a Nishapur (oggi in Iran), comprese che il padre aveva scelto il fratello per il trono, marciò immediatamente ad est per sfidare Ismail. Mahmud sconfisse i sostenitori di suo fratello nel 998, conquistò Ghazni, diventando sovrano, e mise il suo fratello più giovane agli arresti domiciliari per il resto della sua vita.
Il nuovo sultano avrebbe regnato fino alla sua morte nel 1030. Il Regno si espanse rapidamente grazie all’abilità militare dell’esercito di Mahmud; le truppe infatti erano molto agili e bene armate, e Mahmud stesso era uno stratega molto competente. Nel 1001, Mahmud aveva rivolto la sua attenzione verso le terre fertili del Punjab, oggi in India, che si trovava a sud est del suo impero. La regione di destinazione apparteneva alla feroce famiglia del re indù Rajput, che si contrappose agli invasori musulmani provenienti dall’Afghanistan. Inoltre, le truppe di Rajput usavano una combinazione di fanteria e cavalleria con in dotazione gli elefanti, dai tempi di Alessandro Magno, un mezzo formidabile per fermare gli invasori del subcontinente; ma l’elefante si muove più lentamente di un esercito a cavallo, e la rapidità fu l’arma vincente dei Ghaznavidi. Nel corso dei primi anni del XI secolo, Mahmud di Ghazni avrebbe fatto più di una dozzina di attacchi militari in India. Il suo impero si estendeva ormai fino alle coste dell’Oceano Indiano, nel Gujarat meridionale. Mahmud aveva nominato alcuni vassalli locali, e gli aveva imposto di governare in suo nome in molte delle regioni conquistate, facilitando i rapporti con le popolazioni non musulmane. Egli ha inoltre accolto con favore indù e musulmani ismailiti (sciiti) tra i suoi soldati e ufficiali nel suo esercito. Tuttavia per sostenere le spese di un impero così vasto, comprendente l’Iran orientale, la parte meridionale dell’Asia centrale, l’Afghanistan, una parte del Pakistan e dell’India, Mahmud fu costretto ad imporre pesanti tasse sulla popolazione. Il sultano Mahmud amava i libri e sosteneva gli uomini dotti. Nella sua casa a Ghazni, fece costruire una libreria che rivaleggiava con quella di corte del califfo abbaside di Baghdad, oggi in Iraq. Mahmud di Ghazni ha inoltre sponsorizzato la costruzione di università, palazzi, moschee, rendendo la sua capitale il gioiello dell’Asia centrale.
Nel 1026, il 55enne sultano decise di invadere lo stato di Kathiawar (costa del Mar Arabico), nell’India occidentale. Il suo esercito si spinse a sud fino a Somnath, famosa per il suo bel tempio dedicato a Shiva. Anche se le truppe di Mahmud avevano conquistato con successo Somnath, saccheggiando e distruggendo il tempio, le cose a nord stavano incominciando ad andare male. Un certo numero di altre tribù turche, compresi i turchi selgiuchidi, che avevano già conquistato Merv (Turkmenistan) e Nishapur (Iran), si stavano avvicinando al cuore del regno di Mahmud. Questi sfidanti avevano già cominciato a rosicchiare i bordi dell’impero Ghaznavide; Mahmud però non fece in tempo ad affrontarli, infatti morì il 30 aprile 1030. Il sultano aveva solo 59 anni. Il suo impero sarebbe sopravvissuto fino al 1187, anche se cominciò a sgretolarsi da ovest a est, anche prima della sua morte. Nel 1151, il sultano Ghaznavide Bahram Shah perse definitivamente Ghazni, fuggendo a Lahore (oggi in Pakistan). Il sultano Mahmud, nonostante la tolleranza dimostrata nei confronti di molte minoranze, trascorse una parte della sua vita combattendo contro gli “infedeli” – indù, buddisti e musulmani non sunniti come gli ismailiti. Infatti, gli ismailiti sembrano essere stati un particolare bersaglio della sua ira, poiché Mahmud (e il suo leader spirituale, il califfo abbaside) li considerava eretici. Tuttavia, Mahmud di Ghazni sembra aver tollerato le persone non musulmane purché non gli si opponessero militarmente. Questo record di relativa tolleranza continuerà nei seguenti imperi musulmani in India: il Sultanato di Delhi (1206-1526) e l’Impero Moghul (1526-1857).